Qlc art. 323 cp Ord. Trib. Fir.

Commento dell'Avv. Elena Berto
Come ben si saprà, il Parlamento, a mezzo dell’art. 1, comma 1, lettera b), della Legge 114 del 2024, ha abrogato la disposizione di cui all’art. 323 c.p.; e, nel contempo, a mezzo dell’art. 1, lett. e) l. cit., ha sostituito l’art. 346-bis c.p. (traffico di influenze illecite), restringendone, fortemente, l’ambito applicativo. L’abrogazione della disposizione di cui all’art. 323 c.p. ha prodotto un evidente effetto di abolitio criminis , di carattere quasi totale, della fattispecie penale dell’abuso d’ufficio. La permanenza, parziale, del carattere criminoso del reato in esame, si rinviene a fronte della introduzione dell’art. 314 bis c.p. (“indebita destinazione di denaro o cose mobili”), ad opera del d.l. n. 92/2024, codificato prima dell’abrogazione dell’art. 323 c.p. È da attenzionarsi, a tal riguardo, altresì, il mantenimento di rilevanza penale di alcune condotte, tuttora, riconducibili sub art. 328 c.p.
Come noto, l’art. 323 c.p., negli ultimi decenni, è stato oggetto di diversi interventi legislativi.
Segnatamente, si ricordano: (i) le riformulazioni della fattispecie operate con l. 86/1990 e con l. 234/1997; (ii) l’inasprimento della pena detentiva massima applicabile fino a 4 anni di reclusione con l. 190/2012; (iii) la parziale abolitio criminis con d.l. 16 luglio 2020, n. 76, convertito, con modificazioni, nella legge 11 settembre 2020, n. 120; (iv) la fattispecie è stata, infine, abrogata a mezzo dell’art. 1, lett. b) della l. 9 agosto 2024, n. 114, atto normativo che (art. 1, lett. e), nel contempo, ha sostituito l’art. 346-bis c.p., restringendone fortemente l’ambito applicativo.
Il Tribunale di Firenze 1, Sez. Pen. III, con Ordinanza del 24.09.2024, ha dubitato della legittimità costituzionale della norma abrogatrice del reato di abuso d’ufficio.
Quanto alla rilevanza, per il giudizio a quo, della sollevata questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, lett. b) della l. 9 agosto 2024, n. 114, si tenga in considerazione che: (a) la depenalizzazione precluderebbe, in radice, la pronuncia di un’eventuale sentenza di condanna, e, quindi, l’applicazione delle sanzioni penali ex artt. 533 e 535 c.p.p.; nonché il vaglio delle richieste risarcitorie, avanzate dalle parti civili, ex art. 538 c.p.p., in quanto dipendenti da un accertamento di colpevolezza, in ordine ad un fatto previsto dalla legge come reato; (b) l’eventuale pronuncia di incostituzionalità della disposizione abrogatrice della fattispecie di reato dell’abuso d’ufficio, invero, consentirebbe, in ipotesi di ritenuta sussistenza di responsabilità penale, di pervenire a condanna, o, nel caso opposto, di giungere ad assoluzione, per cause diverse dalla abolitio criminis; e, dunque, con formula diversa da “perché il fatto non è previsto dalla legge come reato”; (c) la depenalizzazione ex art. 1, comma 1, lett. b) della l. 9 agosto 2024, n. 114 avrebbe ripercussioni, altresì, laddove il reato fosse già estinto per intervenuta prescrizione; atteso che occorrerebbe pronunciare, necessariamente, sentenza di assoluzione “perché il fatto non è previsto dalla legge come reato”, ex artt. 129, comma 2, e 530, comma 1, c.p.p., prevalendo, la suddetta causa assolutoria, sulla improcedibilità per estinzione del reato per intervenuta prescrizione2.
Quanto all’ammissibilità della questione di legittimità costituzionale, occorre vagliare l’opportunità – rispetto al principio di riserva di legge assoluta, ex art. 25 Cost. – di una sentenza della Consulta, in materia penale sostanziale, (id est: una pronuncia dichiarativa dell’incostituzionalità di una norma che ha prodotto una abolitio criminis), con effetti in malam partem, da cui scaturirebbe la riviviscenza di una fattispecie di reato, espunta, dall’ordinamento, per espressa scelta del legislatore.
Il tema, certamente complesso e delicato, involge, da un lato, (i) la riserva assoluta di legge (art. 25 Cost.), che affida all’atto normativo di rango primario e, quindi, al legislatore, la decisione del “se” incriminare come illecito penale, o meno, un determinato fatto o condotta; e, dall’altro lato, (ii) il rapporto tra le fonti, che impone il necessario rispetto della Costituzione (le sue disposizioni ed i suoi principi) da parte del legislatore ordinario e, quindi, in definitiva il ruolo del Giudice delle leggi.
La questione, come noto, è stata affrontata in diverse sentenze della Corte Costituzionale, anche con riferimento alla abolitio criminis della fattispecie di abuso d’ufficio, allora solo parziale, conseguente alle riforme approvate, con l. 234/1997 e con d.l. 76/2020 (conv. in l. 120/2020); nonché nella sentenza n. 447/1998; e nella recente pronuncia n. 8/2022.
In particolare, nella sentenza da ultimo citata n. 8/2022 (§ 7.), la Consulta riprende la distinzione tra norme penali di favore e norme penali favorevoli, già affrontata e chiarita dalla sentenza n. 394 del 2006 (in senso conforme, tra le altre, sentenza n. 155 del 2019, n. 57 del 2009 e n. 324 del 2008; ordinanza n. 413 del 2008); così chiarendo che: “per norme penali di favore debbono intendersi quelle che stabiliscano, per determinati soggetti o ipotesi, un trattamento penalistico più favorevole di quello che risulterebbe dall’applicazione di norme generali o comuni compresenti nell’ordinamento. [...] La qualificazione come norma penale di favore non può essere fatta, di contro, discendere, come nel caso di specie, dal raffronto tra una norma vigente e una norma anteriore, sostituita dalla prima con effetti di restringimento dell’area di rilevanza penale”.
La distinzione tra norme penali di favore e favorevoli, invero, conduce a diverse conclusioni, in punto di ammissibilità, ex art. 25 Cost., di una sentenza dichiarativa di illegittimità costituzionale; atteso che l’effetto in malam partem, conseguente alla dichiarazione di illegittimità costituzionale delle norme penali di favore, “non vulnera la riserva al legislatore sulle scelte di criminalizzazione, rappresentando una conseguenza dell’automatica riespansione della norma generale o comune, dettata dallo stesso legislatore, al caso già oggetto di ingiustificata disciplina derogatoria”. Viceversa, laddove sia censurata, sul piano della legittimità costituzionale, una norma penale favorevole (categoria in cui, di regola, devesi iscrivere una disposizione abolitiva – in misura totale o parziale – di una fattispecie incriminatrice) “la richiesta di sindacato in malam partem non mira a far ri-espandere una norma tuttora presente nell’ordinamento, ma a ripristinare la norma abrogata, espressiva di una scelta di criminalizzazione non più attuale: operazione preclusa alla Corte3”.
Occorre, a questo punto, riflettere e domandarsi se siffatta regola ammetta, o meno, delle eccezioni.
Va precisato, a tal riguardo, che la preclusione, ex art. 25 Cost., di sentenze dei Giudici delle Leggi con effetti penali in malam partem, per costante giurisprudenza della medesima Consulta – come chiarito dalla stessa sentenza Corte Cost. n. 8/2022 e, più diffusamente, dalla Corte Cost., n. 236 del 2018, n. 143/2018 e n. 37/2019 – ammetta, nientemeno, delle deroghe ed eccezioni.
- 1. Anzitutto, può venire in considerazione la necessità di evitare la creazione di “zone franche” immuni dal controllo di legittimità costituzionale, “laddove il legislatore introduca, in violazione del principio di eguaglianza, norme penali di favore, che sottraggano irragionevolmente un determinato sottoinsieme di condotte alla regola della generale rilevanza penale di una più ampia classe di condotte, stabilita da una disposizione incriminatrice vigente, ovvero prevedano per detto sottoinsieme – altrettanto irragionevolmente – un trattamento sanzionatorio più favorevole” (sentenza n. 394 del 2006).
- 2. Un controllo di legittimità con potenziali effetti in malam partem deve, altresì, ritenersi ammissibile quando a essere censurato è lo scorretto esercizio del potere legislativo.
- Ad esempio, da parte dei Consigli regionali, ai quali non spetta neutralizzare le scelte di criminalizzazione compiute dal legislatore nazionale (sentenza n. 46 del 2014, e ulteriori precedenti ivi citati).
- Da parte del Governo, che abbia abrogato mediante decreto legislativo una disposizione penale, senza a ciò essere autorizzato dalla legge delega (sentenza n. 5 del 2014);
- Ovvero anche da parte dello stesso Parlamento, che non abbia rispettato i principi stabiliti dalla Costituzione in materia di conversione dei decreti-legge (sentenza n. 32 del 2014).
Da ultimo, di eminente rilievo, per il caso che ci occupa, è l’ipotesi della ammissibilità del controllo di legittimità costituzionale, con potenziali effetti in malam partem, ove si assuma la contrarietà della disposizione censurata a obblighi sovranazionali rilevanti ai sensi dell’art. 11 o dell’art. 117, primo comma, Cost. (sentenza n. 28 del 2010; nonché sentenza n. 32 del 2014). Nel caso di specie, è stato – pertinentemente – osservato come, se si stabilisse che il possibile effetto in malam partem della sentenza della Consulta inibisce la verifica di conformità delle norme legislative interne rispetto alle norme U.E. – che sono cogenti e sovraordinate alle leggi ordinarie, nell’ordinamento italiano, per il tramite degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost. – non si arriverebbe soltanto alla conclusione del carattere non auto-applicativo delle direttive euro-unitarie, ma si toglierebbe a queste ultime ogni efficacia vincolante, per il legislatore italiano, come effetto del semplice susseguirsi di norme interne diverse, che diverrebbero insindacabili a seguito della previsione, da parte del medesimo legislatore italiano, di sanzioni penali.
Orbene, quanto alla violazione degli artt. 11 e 117, comma 1, cost., v’è da dire come la parte civile 4 ha sottoposto al collegio questione di legittimità costituzionale in ordine alla intervenuta abrogazione dell’art. 323 c.p., a mezzo dell’art. 1, comma 1, lett. b) della l. 9 agosto 2024, n. 114, per violazione degli artt. 11 e 117, comma 1 Cost. in relazione all’art. 19 della Convenzione delle Nazioni Unite del 2003 contro la corruzione (cd. Convenzione di Merida) e all’art. 31 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati.
All’esito di un opportuno processo ermeneutico, teleologicamente orientato alla stregua dell’art 31 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati, l’art 19 della Convenzione di Merida deve, nientemeno, essere interpretato nel senso che: (i) gli Stati aderenti, che non conoscevano il reato d’abuso d’ufficio, alla data di ratifica del Trattato, sono tenuti a considerare concretamente la possibilità di adottarlo; (ii) gli altri Stati aderenti, che, a quella data, già lo annoveravano, nel proprio sistema penale, sono, invece, obbligati a mantenerlo in vita.
In altri termini, l’art 19, per la prima tipologia di attori statuali, fonda una posizione di obbligo, ricostruibile in questi termini: allorché il sistema legale non conosca il reato d’abuso d’ufficio, si è tenuti a considerare di introdurlo, o meglio, si è tenuti, nei limiti del possibile, ad attivarsi per adottarlo, pur non essendovi un obbligo di implementazione.
Per il secondo gruppo di Paesi, come l’Italia, invece, a ben vedere, origina un vero e proprio obbligo internazionale di “stand still”, vale a dire l’obbligo internazionale di mantenere le cose, così come sono. Sicché, se il sistema legale già conosce il reato d’abuso d’ufficio, devesi mantenere in vigore tale figura delittuosa.
D’altra parte, diversamente opinando, si giungerebbe all’assurdo per il quale il dovere internazionale di considerare di introdurre una figura di reato, per combattere ogni forma di corruzione, verrebbe a essere interpretato come una “mera raccomandazione” a tenere un comportamento “assolutamente discrezionale”; a fronte della quale il legislatore nazionale sarebbe libero di prendersi la licenza di poter smantellare il proprio arsenale contro il multiforme fenomeno corruttivo, che proprio la Convenzione di Merida è preordinata a fronteggiare.
Sulla base di tali premesse, la parte civile istante conclude come di seguito: “lede dunque il buon senso e la logica, ed insieme il diritto internazionale, l’avere asserito, come è stato sinora asserito da fonti governative e parlamentari, che l’obbligo di considerare la necessità di avvalersi del reato d’abuso d’ufficio per combattere la corruzione sarebbe ottemperato, con la sua cancellazione dall’ordinamento”. La Convenzione di Merida, insomma, obbligando gli Stati aderenti che non lo prevedevano a valutare la necessità di implementare il reato d’abuso d’ufficio, ha pure obbligato gli Stati aderenti che già lo annoveravano a non riconsiderare la sua esistenza nei rispettivi ordinamenti nazionali. In definitiva, alla luce dei plurimi rilievi critici sino ad ora mossi, la norma abrogativa dell'abuso d'ufficio, e cioè l’art 1cmma 1 lett. b) della L. agosto 2024, n. 114, deve ritenersi incostituzionale, perché lesiva degli artt. 11 e 117 Cost., in relazione agli artt. 19 della Convenzione di Merida e 31 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati”.
Di talché, occorre chiedersi se, a seguito dell’abrogazione dell’art. 323 c.p., siffatta abolitio criminis contrasti: a) con un vero e proprio obbligo di criminalizzazione/penalizzazione dell’abuso d’ufficio eventualmente imposto dall’art. 19 della Convenzione di Merida5; b) se, in ogni caso, la sopravvenuta abrogazione dell’abuso d’ufficio, reato preesistente, in Italia, rispetto alla Convenzione di Merida, e che attuava l’art. 19 di tale Convenzione, possa integrare comunque una violazione del diritto internazionale (ovvero, altrimenti detto, per usare una efficace espressione di un illustre Autore se “esista un vincolo convenzionale che impedisca al nostro Paese di fare un passo indietro”) e, quindi, vi sia un contrasto con l’art. 117, comma 1 Cost.
Il contenuto di tale obbligo giuridico di “mantenimento della fattispecie incriminatrice di reato”6, sul piano internazionale, discendente dall’art. 19 della Convenzione di Merida, letto ed interpretato in relazione al punto 11 lett. b) e punto 12, della “legislative guide for the implementation of the United Nations Convention against corruption”, deve essere individuato tenendo conto, altresì, di un’altra disposizione della Convenzione di Merida, ovvero l’art. 7, “Settore pubblico”, che, al comma 4, prevede come: “ciascuno stato si adopera, conformemente ai principi fondamentali del proprio diritto interno, al fine di adottare, mantenere e rafforzare i sistemi che favoriscono la trasparenza e prevengono i conflitti di interesse ”.
Secondo la condivisibile dottrina internazionalistica, nella diversa ipotesi in cui l’ordinamento interno preveda già, al momento dell’assunzione dell’obbligo internazionale, una norma interna pienamente conforme a quella internazionale, sullo Stato contraente grava un vero e proprio obbligo, sul piano internazionale, consistente nel non abrogare tale norma, atteso che la efficacia di tale norma interna risulterebbe rafforzata e vincolata dal collegamento esistente con la norma internazionale a cui lo Stato è tenuto ad adeguarsi.
Ritiene, in definitiva, il Tribunale che le ragioni giuridiche sopra esposte – anche per tramite del richiamo della tesi sostenuta dalla parte civile – portino a dubitare seriamente della conformità costituzionale dell’art. 1, comma 1, lett. b) della l. 9 agosto 2024, n. 114 nella parte in cui abroga il reato di cui all’art. 323 c.p. per violazione degli artt. 11 e 117, comma 1 Cost., in relazione agli artt. 7, comma 4, 19 e 65, comma 1, della Convenzione delle Nazioni Unite del 2003 contro la corruzione (cd. Convenzione di Merida).
Quanto al sospetto di incostituzionalità dell’art. 1, comma 1, lett. b) della l. 9 agosto 2024, n. 114, per violazione dell’art. 97 Cost., v’è da specificare quanto segue.
- Il legislatore sarebbe intervenuto in modo “pesante”, sul sistema dei reati contro la pubblica amministrazione, eliminando importanti presidi penali a tutela del buon andamento ed imparzialità della pubblica amministrazione, nella dichiarata intenzione di perseguire una più efficace e libera azione amministrativa. Peraltro, la decisa contrazione dell’area penalmente rilevante, ad opera della l. 114/24, non sarebbe stata, in alcun modo, “compensata”, dalla introduzione di appositi illeciti amministrativi o dal potenziamento delle misure di prevenzione di condotte gravemente lesive del buon andamento e della imparzialità della pubblica amministrazione; ovvero di una disciplina delle attività di lobbying, come del resto rilevato anche nella già citata Relazione annuale della Commissione U.E., sullo Stato di diritto, per il 2024, adottata a Bruxelles, il 24.7.2024. Il Parlamento avrebbe, de facto, abrogato, espressamente, il delitto di abuso d’ufficio (art. 323 c.p.) – di cui sopravvivono ormai solo marginali ed invero infrequenti ipotesi, quale il peculato per distrazione (art. 314 bis c.p.) – e, indirettamente, limitato molto anche il traffico di influenze illecite (art. 346 bis c.p.). La riforma odierna avrebbe assunto una valenza “massiva” e “pervasiva”, poiché ha abolito la fattispecie di cui all’art.323 c.p., sia nella forma dell’abuso “per violazione di legge”, sia dell’abuso “per omessa astensione”; sia dell’abuso “di danno” che “di vantaggio”; sicché a rimanere, sanzionate, penalmente, sono solo le condotte di “peculato per distrazione”, giusta art. 314 bis c.p.; ovvero la condotta di “indebita destinazione di denaro o cose mobili”, e di “abuso d’ufficio per omissione”, tuttora incriminate ex art. 328 c.p.
- Sarebbe, dunque, inibita, la repressione penale – non solo nelle ipotesi di violazione di legge “intenzionalmente” poste in essere dal pubblico ufficiale (o incaricato di pubblico servizio) per danneggiare o favorire taluno – ma, addirittura, nei casi di mancata astensione, in caso di conflitto di interessi o di situazioni di incompatibilità.
- L’abrogazione dell’art. 323 c.p. parrebbe, addirittura, depotenziare, sebbene in via indiretta, lo stesso obbligo di astensione del pubblico ufficiale in caso di conflitto di interessi;
- Nel contempo, la l. 9 agosto 2024, n. 114 (art. 1, lett. e), avrebbe sostituito l’art. 346-bis c.p., restringendone fortemente l’ambito applicativo; atteso che: a) la nuova fattispecie si riferisce solo alle relazioni esistenti e, pertanto, non dà più rilievo ai fatti commessi da faccendieri (o trafficanti di influenze) millantatori; b) la nuova formulazione, di cui all’art.346 bis c.p., precisa che l’utilizzazione delle relazioni deve avvenire “intenzionalmente allo scopo” di porre in essere le condotte che integrano la fattispecie delittuosa; espressione con cui il legislatore ha ristretto l’ambito di applicazione della fattispecie, aggiungendo il requisito del dolo intenzionale, in rapporto all’utilizzazione delle relazioni con il pubblico funzionario; c) con la l. 114/2024, l’utilità data o promessa al mediatore, in alternativa al denaro, deve essere economica, di talché non sarà più punibile il mediatore che fa dare o promettere a sé o ad altri un’utilità non economica (si pensi: ad un rapporto sessuale, o ai vantaggi sociali ovvero di natura meramente politica); d) il nuovo art. 346 bis c.p. lascia fuori dall’ambito applicativo della fattispecie, il fatto commesso in rapporto all’esercizio dei soli poteri del pubblico funzionario, e non anche delle sue funzioni; e) il legislatore avrebbe introdotto, di poi, una definizione legale piuttosto ristretta di “mediazione illecita” rappresentata da quella posta in essere “per indurre il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio...a compiere un atto contrario ai doveri d’ufficio costituente reato dal quale possa derivare un vantaggio indebito”7.
In definitiva, il Tribunale ha ritenuto che, anche sotto l’aspetto della violazione dell’art. 97 Cost., la scelta legislativa di abrogazione del delitto di cui all’art. 323 c.p. non pare riconducibile ad un legittimo esercizio della discrezionalità del legislatore, ma si prospetta come arbitraria.
1 Il Tribunale di Firenze, invero, si è determinato, come di seguito indicato: “visti gli artt. 134 Cost., 1 l. cost. 1/1948 e 23 ss. l. 87/1953, ritenuta la questione rilevante e non manifestamente infondata, solleva questione di legittimità costituzionale in relazione all’art. 1, comma 1, lett. b) della l. 9 agosto 2024, n. 114 (pubblicata in GU n.187 del 10 agosto 2024 ed entrata in vigore il 25 agosto 2024), nella parte in cui abroga l’art. 323 c.p., per violazione degli articoli 97, 11 e 117, comma 1 Cost. (in relazione agli obblighi discendenti dagli artt. 7, comma 4, 19 e 65, comma 1, della Convenzione delle Nazioni Unite del 2003 contro la corruzione -cd. Convenzione di Merida- adottata dalla Assemblea generale dell’ONU il 31 ottobre 2003 con risoluzione n. 58/4, firmata dallo Stato italiano il 9 dicembre 2003, oggetto di ratifica ed esecuzione in Italia con l. 3 agosto 2009, n. 116); sospende il giudizio in corso nei confronti degli imputati ed i relativi termini di prescrizione fino alla definizione del giudizio incidentale di legittimità costituzionale con restituzione degli atti al giudice procedente; dispone l’immediata trasmissione degli atti del procedimento alla Corte Costituzionale; manda la Cancelleria per la notificazione della presente ordinanza al Presidente del Consiglio dei Ministri, nonché per la comunicazione ai Presidenti della Camera dei Deputati e del Senato della Repubblica e per la successiva trasmissione del fascicolo processuale alla Corte Costituzionale”.
2 Ancora, (d) in caso di già maturata prescrizione, l’eventuale pronuncia di incostituzionalità della disposizione abrogatrice della fattispecie implicherebbe, invece, diverse alternative, atteso che, in ipotesi di difetto evidente della sussistenza del fatto o della sua commissione da parte dell’imputato o che il fatto costituisca reato, il Tribunale potrebbe pervenire ad assoluzione ex artt. 129, comma 2 e 530, comma 1 c.p.p., con formule ampiamente liberatorie (che, però, presuppongono l’incriminazione, da parte dell’ordinamento, del fatto, come illecito penale); mentre, in caso di ritenuta sussistenza della prova della responsabilità penale o, comunque, di dubbio, ex art. 530, comma 2, c.p.p., il Tribunale sarebbe tenuto, anche ad istruttoria conclusa, a pronunciare sentenza di non doversi procedere ex artt. 129, comma 1, e 531 c.p.p.; (e) peraltro, la Corte costituzionale, con sentenza n. 28/2010, ha ribadito il principio, invero, già, precedentemente; enunciato, secondo cui “l’eventuale accoglimento delle questioni relative a norme più favorevoli verrebbe ad incidere sulle formule di proscioglimento o, quanto meno, sui dispositivi delle sentenze penali”; peraltro, “la pronuncia della Corte non potrebbe non riflettersi sullo schema argomentativo della sentenza penale assolutoria, modificandone la ratio decidendi: poiché in tal caso ne risulterebbe alterato [...] il fondamento normativo della decisione, pur fermi restando i pratici effetti di essa» (sentenza n. 148 del 1983)”
3 Per maggiori approfondimenti sulla inammissibilità delle questioni volte a conseguire il ripristino di norme incriminatrici abrogate o di discipline penali sfavorevoli, ex plurimis, sentenze n. 37 del 2019, n. 57 del 2009 e n. 324 del 2008; ordinanze n. 282 del 2019, n. 413 del 2008 e n. 175 del 2001.
4 Segnatamente, così si legge: “le previsioni convenzionali, costruite intorno alla formula ‘each State Party shall consider adopting’, lungi dal delineare una mera raccomandazione internazionale, per la verità, gravano il singolo Stato aderente di un vero e proprio obbligo internazionale, imponendogli di valutare concretamente la possibilità di implementare una determinata figura di reato nel proprio sistema penale. Le sole previsioni convenzionali, inidonee ad originare ‘alcun tipo di obbligo’, per le Parti aderenti, sono infatti quelle che si fondano sul diverso sintagma “each State Party may adopt” (si veda, a titolo esemplificativo, l’art 27 par. 2 e 3 della Convenzione di Merida)”.
5 La Convenzione delle Nazioni Unite del 2003, contro la corruzione (cd. Convenzione di Merida), adottata dalla Assemblea generale dell’ONU, il 31 ottobre 2003, con risoluzione n. 58/4, firmata dallo Stato italiano, il 9 dicembre 2003, come noto, è stata oggetto di ratifica ed esecuzione, in Italia, con l. 3 agosto 2009, n. 116. E’ un dato pacifico che la Convenzione di Merida costituisca un vero e proprio trattato internazionale di natura multilaterale (d’altronde nel linguaggio internazionalistico, come noto, i termini trattato, accordo, patto e convenzione, sono utilizzati indistintamente); e, in quanto tale, fonte del diritto internazionale particolare, di natura volontaria, vincolante per gli Stati contraenti e che trova il fondamento della sua obbligatorietà nella ben nota norma consuetudinaria cogente pacta sunt servanda (principio peraltro espresso nella Convenzione di Vienna del 23 maggio 1969 sul diritto dei trattati, all’art. 26). Nell’ambito del titolo terzo e delle misure penali, la Convenzione ha posto in capo agli Stati firmatari l’obbligo di conferire carattere penale a una varietà di infrazioni correlate ad atti di corruzione, qualora esse non siano già nel diritto interno definite come infrazioni penali. La Legislative guide for the implementation of the United Nations Convention against corruption, che rappresenta un documento di “interpretazione autentica” della Convenzione stessa, nella versione consolidata al 2012, al punto 6 (p. 2), richiede agli Stati parti di introdurre reati penali e altri reati per coprire un’ampia gamma di atti di corruzione, nella misura in cui questi non siano già definiti come tali dal diritto interno. La criminalizzazione di alcuni atti è obbligatoria ai sensi della Convenzione. Lo stesso documento a p. 59, di fatto, riprendendo quanto previsto dall’art. 65, comma 2, della Convenzione, prevede, inoltre, che la Convenzione introduce standard minimi, ma gli Stati parti sono liberi di andare oltre. Ciò premesso in via generale, va considerato che all’art. 19 la Convenzione prende in espressa considerazione la fattispecie dell’abuso d’ufficio prevedendo: “Each State Party shall consider adopting such legislative and other measures as may be necessary to establish as a criminal offence, when committed intentionally, the abuse of functions or position, that is, the performance of or failure to perform an act, in violation of laws, by a public official in the discharge of his or her functions, for the purpose of obtaining an undue advantage for himself or herself or for another person or entity” (nella traduzione italiana, rinvenibile in allegato alla legge di autorizzazione alla ratifica ed esecuzione l. 3 agosto 2009, n. 116, la disposizione viene così traslata: “Articolo 19 Abuso d’ufficio”: Ciascuno Stato Parte esamina l’adozione delle misure legislative e delle altre misure necessarie per conferire il carattere di illecito penale, quando l’atto è stato commesso intenzionalmente, al fatto per un pubblico ufficiale di abusare delle proprie funzioni o della sua posizione, ossia di compiere o di astenersi dal compiere, nell’esercizio delle proprie funzioni, un atto in violazione delle leggi al fine di ottenere un indebito vantaggio per se o per un’altra persona o entità”).
6 Gli obblighi discendenti dalla Convenzione di Merida (ci si concentra ora su quelli di cui all’art. 19) vanno declinati diversamente, tenuto conto anche dell’art. 7, comma 4 della Convenzione medesima, a seconda del fatto che lo Stato aderente abbia o meno già adottato nel proprio ordinamento la fattispecie di abuso d’ufficio, sicché: (a) lo Stato parte che non abbia introdotto la fattispecie prima dell’adesione alla Convenzione di Merida, sarà tenuto a valutare concretamente e seriamente la sua introduzione in conformità al proprio diritto interno, dovendo compiere uno sforzo reale per vedere se essa sia compatibile con il proprio ordinamento giuridico; di talché, laddove tale compatibilità sussista, lo Stato contraente, onde intenda adeguarsi all’obbligo internazionale, sarà ragionevolmente tenuto ad introdurlo; (b) lo Stato parte che invece, come l’Italia, abbia già introdotto la fattispecie prima dell’adesione alla Convenzione di Merida e che ha, dunque, già positivamente valutato la conformità della fattispecie rispetto al proprio diritto interno -dovendo mantenere e rafforzare i sistemi che favoriscono la trasparenza e prevengono i conflitti di interesse (art. 7, comma 4, Convenzione di Merida)- per adeguarsi all’obbligo internazionale di cui all’art. 19, sarà tenuto a non abrogare la fattispecie già vigente, vieppiù senza la contestuale adozione di alcuna misura preventiva e/o repressiva-sanzionatoria caratterizzata da concreta ed effettiva dissuasività.
7 Ed altresì, non può farsi a meno di constatare come piuttosto gravi risultino essere gli effetti sistemici connessi all’abrogazione dell’art. 323 c.p., potendosi, quivi, osservare, sinteticamente che: (a) la disciplina di cui all’art. 323 c.p. non trovava applicazione solo ai funzionari pubblici addetti all’amministrazione, ma a tutti i pubblici ufficiali; (b) è innegabile la profonda differenza della tutela e dell’effetto deterrente offerte dal presidio penale, non solo per le sanzioni ben più dissuasive, ma soprattutto per via dei seguenti ulteriori fattori: l’accertamento affidato alla magistratura, ovvero ad un ordine autonomo ed indipendente da ogni altro potere, che dispone direttamente della polizia giudiziaria e che deve necessariamente perseguire gli illeciti (artt. 104, 107 e 112 Cost.); la procedibilità d’ufficio ex art. 50 c.p.p.; la disponibilità di penetranti strumenti di indagine (in primis perquisizioni e sequestri); il potere-dovere, in caso di persistenza nell’attività criminosa e/o di sussistenza delle esigenze cautelari, di intervento da parte della polizia giudiziaria (mediante impedimento dell’aggravamento delle conseguenze del reato ex art. 55 c.p.p., con possibilità di arresto facoltativo in flagranza, ex art. 381, comma 1, c.p.p.) e dell’Autorità giudiziaria (mediante ad es. adozione delle misure cautelari ex artt. 273 e ss. c.p.p.); (c) in ogni caso il rimedio giurisdizionale (civile o amministrativo), concesso al privato, giammai, in termini di tutela del bene giuridico di cui all’art. 97 Cost., potrebbe supplire all’assenza della tutela penale, fino ad oggi, garantita dall’art. 323 c.p.; (d) anche tenendo in considerazione la esistenza di rimedi e forme alternative di tutela, il legislatore ha di fatto lasciato alla sola iniziativa privata (del terzo danneggiato, tra l’altro solo eventuale) la tutela di un bene giuridico pubblico e collettivo sottratto alla disponibilità del privato medesimo; (e) infine, per questa via, l’ordinamento, di fatto, rinuncia a perseguire in concreto tutte quelle gravissime violazioni di legge o del dovere di astensione, che comportino un vantaggio per il terzo privato, in assenza, ovvero, all’insaputa, di eventuali soggetti contro-interessati, che possano intraprendere un’azione volta a far accertare l’illegittimità di quella condotta.
