P.M.A. eterologa e divieto di accesso ai single

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Sentenza

Commento dell'Avv. Elena Berto


Il Tribunale civile di Firenze, Sezione I, con ordinanza, giusta art. 23, comma 3, Legge 11 marzo 1953, n. 87, ha dichiarato rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 5 della Legge n. 40 del 2004, per via del rilevato contrasto con gli artt. 2,3,13,32 e 117 della Costituzione. L’art. 5 della Legge n. 40 del 2004, come noto, prevede il divieto di accesso – per gli individui single – alle tecniche di “Procreazione Medicalmente Assistita” (resa legittima, anche nella forma “eterologa”, nel nostro ordinamento, a partire dalla sentenza della Consulta n. 162 del 2014). Invero, il testo della norma, non suscettibile di interpretazioni estensive ovvero analogiche, prevede – in modo chiaro e preciso – i soggetti che possono ricorrere a siffatte pratiche procreative: “coppie di maggiore età, di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertili, entrambi viventi”. Sono, pertanto, esclusi i soggetti che non condividono il progetto di genitorialità assistita con un partner (coniuge ovvero convivente).

Innanzitutto, il Tribunale di merito chiarisce due ragioni a sostegno dell’opportunità del sollevamento della questione di legittimità costituzionale: (i) in primo luogo, il nostro ordinamento già ammette e tutela la famiglia “monogenitoriale”, atteso che consente l’adozione in casi particolari ai soggetti single, giusta art. 44, lettera “d”, della Legge n. 184 del 1983; (ii) in secondo luogo, il fenomeno del c.d. turismo procreativo – de facto – avrebbe imposto il superamento del dettato normativo interno, palesando l’irragionevolezza del divieto. Altresì, sempre a sostegno dell’impostazione quivi suffragata, il Tribunale di Firenze argomenta, da un lato, (i) alla luce della recente sentenza della Consulta n. 161 del 2023 (che ha consentito la prosecuzione della P.M.A., anche ad esito del sopraggiungere di conflitti della coppia, nonché a fronte della revoca del consenso paterno); e, dall’altro lato, (ii) alla luce del Decreto del Ministero della Salute pubblicato in G.U. n. 107 del 2024 (il quale ammette il diritto della donna “separata” o “vedova”, al trasferimento dell’embrione crioconservato nell’utero, qualora vi sia stato un precedente consenso firmato dalla coppia alla fecondazione, ed allorquando la fecondazione sia già avvenuta). Ma vi è di più. Secondo il Tribunale di merito, a vanire in rilievo sarebbe anche l’art. 117 della Costituzione. Ed invero, l’art. 5 della Legge n. 40 del 2004 contrasterebbe, (i) a livello nazionale, con gli artt. 2, 13 e 32 della Costituzione, posto che imporrebbe una ingiustificata contrazione del diritto all’autodeterminazione procreativa, già riconosciuto dalla Consulta con il precedente n. 151 del 2009; (ii) nonché, rispettivamente, a livello euro-unitario e convenzionale, con gli artt. 3,7,9 e 35 della Carta di Nizza, e con gli artt. 8 e 14 della CEDU.

Icastiche, in definitiva, risultano essere le parole utilizzate dal Tribunale di Firenze: “il divieto normativo in rilievo confligge con il diritto al rispetto della vita privata e familiare e con il diritto all’integrità fisica e psichica in quanto non rispetta la libertà di autodeterminazione e di scelta in ordine alla propria sfera privata con particolare riguardo al diritto di ciascuno di costituzione del proprio modello di famiglia”.

Volendo approfondire la pronuncia della Consulta n. 161 del 2023, posta alla base di una delle maggiori argomentazioni utilizzate dall’ordinanza di rimessione del Tribunale di Firenze del settembre 2024, giovi considerare quanto di seguito disposto. La questione trae origine dal giudizio instaurato, vanamente, dalla donna ricorrente, per ottenere la condanna, della struttura sanitaria, all’impianto dell’embrione, previamente crioconservato, nell’ambito di un percorso di procreazione medicalmente assistita omologa, avviata anni prima, d’accordo con il marito. La P.M.A. era stata negata per via del fatto che – durante il lungo arco temporale intercorso tra la fecondazione embrionale e l’impianto uterino, causato della scarsa qualità del materiale endometriale femminile, che aveva richiesto la sottoposizione della donna ad ulteriori cure – il marito aveva chiesto il divorzio, e, di conseguenza, aveva revocato il proprio consenso prestato al progetto di genitorialità medicalmente assistita.

Tuttavia, la revoca del consenso dell’uomo, essendo intervenuta dopo la fecondazione dell’ovulo, non risultava in linea con la disciplina della P.M.A. Da qui, la questione di legittimità – incidentalmente – sollecitata, dall’ex marito, alla Corte Costituzionale. Ed effettivamente, con ordinanza del 5 giugno 2022, il Tribunale ordinario di Roma ha dubitato della legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 3, ultimo periodo, della legge n. 40 del 2004, per via dell’omessa previsione della revocabilità del consenso, prima dell’impianto uterino; allorquando, in considerazione del considerevole arco temporale decorso dal momento della fecondazione embrionale, si sia disgregato quel “progetto di coppia”, e, quindi, siano venute meno, sul piano sostanziale, le condizioni soggettive richieste dalla legge n. 40 del 2004 per l’accesso alla P.M.A. Quanto alla non manifesta infondatezza, il giudice rimettente chiarisce che la disciplina dell’irrevocabilità del consenso era stata prevista dal legislatore in un contesto normativo in cui l’impianto uterino sarebbe dovuto avvenire subito dopo la fecondazione embrionale. Tuttavia, i tempi sarebbero mutati, posto che le sentenze n. 151 del 2009 e 96 del 2015 della Consulta, avrebbero fatto venir meno il sostanziale “divieto di crioconservazione”.

La Corte Costituzionale, di contro, ha dichiarato: 1) inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 3, ultimo periodo, della legge 19 febbraio 2004, n. 40, sollevate, in riferimento agli artt. 13, primo comma, e 32, secondo comma, della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Roma; 2) non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 3, ultimo periodo, della legge n. 40 del 2004, sollevate, in riferimento agli artt. 2, 3 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, dal Tribunale ordinario di Roma. Di seguito, le ragioni della decisione della Consulta.

  • Il menzionato art. 5, comma 1, fa esclusivo riferimento ai requisiti soggettivi necessari per “accedere” alle tecniche di PMA: il dato testuale non richiede, quindi, che tali presupposti rimangano invariati anche dopo la fecondazione.


  • Prive di ragionevolezza sono reputate, altresì, le censure formulate in riferimento agli artt. 3, 13, primo comma, e 32, secondo comma, Cost., atteso che il trasferimento dell’embrione fecondato, nell’utero femminile, si traduce in un “trattamento sanitario” che coinvolge solo ed esclusivamente il corpo e la psiche della donna. La donna, inoltre, si deve fare carico dell’onere di mettere a disposizione la propria corporalità ed emotività psichica, in funzione del processo procreativo. Di talché, con il consenso dell’uomo, sorge una concreta “aspettativa di maternità” nella donna; che corrisponde ad un “legittimo affidamento” nel progetto genitoriale, il quale nasce con la fecondazione, e sarebbe frustrato se non venisse portato a compimento con l’impianto. Coerentemente con questa impostazione, le linee guida di cui al D.M. 1° luglio 2015 stabiliscono che: “[l]a donna ha sempre il diritto ad ottenere il trasferimento degli embrioni crioconservati”. Del resto, proprio il coinvolgimento del corpo della donna, ha portato la Consulta a ritenere “insindacabile” la “scelta politico-legislativa” di lasciarla “unica responsabile della decisione di interrompere la gravidanza”, senza riconoscere rilevanza alla volontà del padre del concepito (ordinanza n. 389 del 1988).


  • Quanto all’autodeterminazione dell’uomo, manifestata con la prestazione del consenso, giusta art. 6 della legge n. 40 del 2004, v’è da dire che questa matura in un contesto in cui egli è reso edotto del possibile ricorso alla crioconservazione; sicché a questa eventualità egli presta, nientemeno, il suo consenso. Di talché egli è, perfettamente, consapevole circa il fatto che, tra la fecondazione e l’impianto, possa trascorrere un arco temporale considerevole, durante il quale la coppia potrebbe entrare in crisi, con conseguente disgregazione del progetto di genitorialità.


  • Complementari a queste considerazioni sono quelle inerenti alla dignità dell’embrione; il quale, in linea con le plurime e recenti considerazioni giurisprudenziali, “ha in sé il principio della vita”. Peraltro, la considerazione dell’ulteriore interesse del minore a un “contesto familiare non conflittuale” non può essere enfatizzata al punto da far ritenere che essa integri una condizione esistenziale, talmente determinante, da far preferire la soluzione “della non vita”.


  • Non fondata è, infine, la censura formulata in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 8 CEDU, quanto al diritto al rispetto della propria vita privata. Effettivamente, il citato caso Evans contro Regno Unito non risulta del tutto sovrapponibile, atteso che la revoca del consenso da parte dell’uomo è, fino al momento di impianto dell’embrione, espressamente, consentita dalla legge inglese (e, quindi, non può generare un affidamento della donna). La Corte europea dei diritti dell’uomo ha precisato, di poi, che il ricorso al trattamento di fecondazione in vitro dà luogo a delicate questioni etiche, concernenti “aree” in cui manca un “consenso europeo” univoco; così rimarcando l’ampio margine di apprezzamento da riconoscere agli Stati nella risoluzione dei singoli casi concreti.


In conclusione, pur nella sua vincolatività unilaterale nei confronti dell’uomo, la norma censurata appare, quindi, esprimere un bilanciamento che non sconfina nella irragionevolezza. Ciò può essere affermato, da un lato, in forza della garanzia del formarsi, nell’uomo, “di una volontà consapevole e consapevolmente espressa” (art. 6, comma 1, della legge n. 40 del 2004), attinente vuoi alla possibilità della crioconservazione, vuoi alla centralità del consenso, che mira a riprodurre, nella fecondazione artificiale, i tratti della irreversibilità della responsabilità genitoriale, propri nella fecondazione naturale (artt. 8 e 9 della medesima legge). Dall’altro, per un ulteriore duplice ordine di ragioni. In primo luogo, perché l’irrevocabilità del consenso genera nella donna un “affidamento legittimo” che la spinge a sottoporsi alla procedura di P.M.A., mettendo in gioco la propria integrità psicofisica. In secondo luogo, perché il consenso maschile innesca un processo che, a partire dalla fecondazione embrionale, diviene inarrestabile, e che finisce per raggiungere il proprio culmine con l’impianto uterino.


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