Memoria PM Reggio Emilia

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Sentenza

Commento dell'Avv. Elena Berto


Con “memoria” del 09.09.2024, il Sostituto Procuratore presso la Procura della Repubblica del Tribunale di Reggio Emilia, giusta art. 23 della Legge n. 87 del 1953, ha presentato istanza di rimessione della questione di legittimità costituzionale, in ordine all’art. art. 1, comma 1, lett. b), Legge 9 agosto 2024, n. 114, con il quale è stato abrogato l’art. 323 c.p., vale a dire la fattispecie incriminatrice del reato di “abuso d’ufficio”, per violazione degli artt. 3, 24, 97 e 117 della Costituzione.
Quanto alla “rilevanza della questione”, il P.M. aderisce alla tesi a mente della quale il divieto di declaratoria di illegittimità costituzionale delle cc.dd. “norme penali favorevoli” (e, nello specifico, delle cc.dd. “norme abrogatrici di fattispecie incriminatrici di reato”) contrasterebbe con l’avvertita necessità di evitare la sussistenza di “zone franche” rispetto al sindacato di legittimità costituzionale delle leggi. Ciò è vero e non altrimenti confutabile – a detta del P.M. – nella misura in cui: “contraria alle fondamenta stessa dello Stato di Diritto, sarebbe la possibilità che le suddette norme penali possano sfuggire al controllo di costituzionalità, precludendosi, di tal guisa, di poter garantire la preminenza del testo costituzionale sulla legislazione statale ordinaria”. Sicché, secondo il Sostituto Procuratore presso la Procura della Repubblica del Tribunale di Reggio Emilia, non meritevole di adesione risulterebbe essere, di contro, il diverso orientamento esegetico, in ossequio al quale solo le cc.dd. “norme penali di favore” potrebbero essere sottoposte al giudizio incidentale di legittimità costituzionale. Per avvalorare le proprie argomentazioni in ordine alla c.d. “rilevanza della questione”, di poi, il P.M. prosegue con il richiamo – strettamente connesso altresì alla “non manifesta infondatezza” – delle seguenti fondamentali pronunce, in termini, della Corte Costituzionale (n. 8 del 2022, n. 37 del 2019, n. 40 del 2019, n. 155 del 2019, n. 57 del 2009, n. 324 del 2008, n. 394 del 2006, n. 148 del 1983; nonché ord. n. 413 del 2008).
Declinando siffatte considerazioni teoriche nelle dinamiche pratiche del giudizio a quo (iscritto al N.R.G. 5226/2018), il P.M. ha esposto due diversi scenari: (i) Rebus sic stantibus, trattandosi di un reato abrogato in epoca successiva alla commissione del fatto contestato, il Tribunale di Reggio Emilia avrebbe l’obbligo di dichiarare “il non doversi procedere”, ex art. 129 c.p.p.; essendosi in presenza in presenza di ‘fatti non più previsti dalla legge come reato’. (ii) In ipotesi, invece, di “accoglimento della q.l.c.”, qualora la predetta abrogazione fosse considerata ‘contraria’ al testo costituzionale, si realizzerebbe la “riespansione” della rilevanza penale della condotta di abuso d’ufficio perpetrata dal reo, con la conseguente prosecuzione del processo già in corso, al fine di accertare, in dibattimento, la sussistenza del reato contestato.
La tematica de qua, evidentemente, evoca alla mente la nota distinzione tra, da un lato, (i) le norme penali favorevoli (tra cui rientrano le norme abrogatrici di fattispecie incriminatrici di reato) e, dall’altro lato, (ii) le norme penali di favore.
Le norme penali favorevoli sono disposizioni che “incidono” sull’area di intervento di una norma incriminatrice, concorrendo alla definizione della fattispecie di reato. Di talché le fattispecie incriminatrici e le norme penali favorevoli, sovente, si pongono in “rapporto diacronico”. Sicché non sarebbe data una loro contestuale coesistenza nell’ordinamento giuridico. Si pensi al caso delle norme favorevoli che abrogano fattispecie di reato, ove le norme abrogatrici, invero, si sostituiscono a quelle abrogate. Il sindacato di costituzionalità in malam partem delle norme penali favorevoli è, sempre, vietato, salvo che vi siano vizi formali. Per vizi formali, a titolo esemplificativo, si intende: (i) il difetto di ‘legge delega’ nel d.lgs., in spregio dell’art. 76 Cost.; ovvero (ii) l’adozione del d.l. al di fuori dei casi e presupposti di cui all’art. 77 Cost.; ovvero ancora (iii) l’abrogazione di norme ‘costituzionalmente necessarie’, poiché imposte dalla Costituzione, dalle norme euro-unitarie ovvero dalla CEDU (si pensi, ad esempio, all’impossibilità di dichiarare incostituzionale l’omicidio ovvero la tortura). Il divieto del sindacato di legittimità costituzionale delle norme penali favorevoli trae la sua ragion d’essere dalla necessità di tutelare la riserva di legge e, quindi, il monopolio legislativo del Parlamento. Si argomenta, in particolare, alla luce del fatto che il fenomeno di “reviviscenza” della fattispecie incriminatrice abrogata, per effetto della declaratoria di illegittimità costituzionale della norma abrogante, sarebbe contrario all’art. 25, comma 2 della Costituzione.
Le norme “di favore”, invece, sono disposizioni speciali che stabiliscono, in relazione a taluni soggetti ovvero ipotesi criminose, un trattamento “in melius” rispetto a quello che risulterebbe dall’applicazione di norme sfavorevoli di carattere “generale”. Le norme penali di favore coesistono, contestualmente, nell’ordinamento giuridico, insieme alle fattispecie incriminatrici che derogano. Si tratta, quindi, di un rapporto di coesistenza “sincronico”, all’interno dell’ordinamento giuridico. Sicché non si rinviene una successione nel tempo tra norme, quanto, piuttosto, un rapporto di “regola ed eccezione”. In relazione alle norme penali di favore è, pacificamente, ammesso il sindacato di ragionevolezza, imposto dall’art. 3, comma 1, Cost. L’effetto in malam partem, conseguente alla dichiarazione di illegittimità costituzionale di tali norme, non vulnera la riserva di legge; rappresentando, piuttosto, una conseguenza dell’automatica “riespansione” della norma generale (precedentemente derogata dalla norma speciale di favore). Siffatto fenomeno di riespansione è dettato dallo stesso legislatore. Le scelte di criminalizzazione restano, quindi, un monopolio del legislatore.
Quanto alla “non manifesta infondatezza della questione”, il P.M. richiama i seguenti parametri costituzionali: artt. 3, 24, 97 e 117 della Costituzione.
La violazione del parametro dell’uguaglianza e della ragionevolezza, di cui all’art. 3 Cost., discendente dall’abrogazione del reato di abuso di ufficio, sarebbe ravvisabile, anzitutto, rispetto ai rapporti tra l’art. 323 c.p. e l’art. 328 c.p.; e, in secondo luogo, rispetto all’analisi delle ipotesi delittuose di cui agli artt. 323 c.p. e 353 bis c.p.
Quanto alla prima coppia di norme, prima dell’abrogazione del reato di abuso di ufficio, la condotta omissiva del pubblico ufficiale (il c.d. “rifiuto omissivo di atti di ufficio”) posta in essere “al fine di procurare a sé o ad altri un vantaggio ingiusto patrimoniale, o comunque per arrecare ad altri un danno ingiusto”, pacificamente, si riteneva integrasse il più grave reato di cui all’art. 323 c.p., e non, quindi, quello di cui all’art. 328 c.p. Sicché, secondo il P.M., abrogato l’abuso d’ufficio, oggi, entrambe le condotte omissive, pur differenti sotto il profilo connesso al relativo “disvalore criminale” (maggiore nell’art. 323 c.p. e minore nell’art. 328 c.p.), finirebbero per essere “trattate” in maniera identica, poiché sussumibili – entrambe – sotto l’art. 328 c.p., unica norma rimasta in vigore. Ancora più evidente sarebbe l’irragionevolezza della disparità di trattamento, tra, da un lato, il reato di ‘omissione di atti d’ufficio’, giusta art. 328 c.p., e, dall’altro lato, la – parimenti abrogata – condotta “commissiva” del reato di abuso di ufficio, giusta art. 323 c.p.
Si prenda in considerazione quanto di seguito disposto, di poi, rispetto alla coppia di articoli 323 e 353 bis c.p. Ad esito dell’abrogazione dell’abuso di ufficio, le condotte del pubblico ufficiale: (i) se atte a pregiudicare il buon andamento e l’imparzialità di una Pubblica Amministrazione nell’ambito di un “bando di gara” (vale a dire una “procedura ad evidenza pubblica” propriamente detta) sarebbero penalmente rilevanti, ex art. 353 bis c.p.; (ii) invece, se atte a pregiudicare il medesimo bene giuridico, nell’ambito, tuttavia, di un “affidamento diretto”, non sarebbero più considerabili penalmente rilevanti; stante, giustappunto, l’eliminazione dell’art. 323 c.p. E, ciò, nonostante la condotta riconducibile all’abuso d’ufficio sia connotata da maggior disvalore rispetto a quella degli artt. 353 e 353 bis c.p. La manifesta irragionevolezza, nientemeno, risiederebbe nella circostanza per la quale, a seguito dell’abrogazione dell’abuso d’ufficio, la medesima condotta del pubblico ufficiale risulterebbe penalmente rilevante (o meno) a seconda della presenza (o assenza) di una “procedura ad evidenza pubblica”.
Peraltro, ad esito dell’abrogazione del reato di abuso d’ufficio (inquadrato nell’ambito dei "delitti contro la pubblica amministrazione), apparirebbe lapalissiana anche la violazione dell’art. 97 della Costituzione, non solo poiché sarebbero sprovvisti di una “effettiva tutela penale” i beni giuridici della (i) imparzialità e del (ii) buon andamento; ma anche perché sarebbe messo a repentaglio il bene giuridico del ‘patrimonio’ del soggetto terzo pregiudicato dal comportamento prevaricatore del Pubblico Ufficiale. Sicché al terzo pregiudicato non rimarrebbe che la tutela in sede giurisdizionale amministrativa. Siffatta impostazione argomenta alla luce della natura plurioffensiva del reato di cui all’art. 323 c.p. Peraltro, nel caso di condotta “contra legem” del pubblico ufficiale, ovvero in “conflitto di interessi”, ove, anziché provocare un danno al terzo, lo si favorisca ingiustamente, in assenza o all’insaputa di eventuali competitors, non sarebbe possibile rinvenire soggetti titolari dell’interesse ad esercitare un’azione volta a dichiarare illegittima quella condotta. Ciò implicherebbe – all’evidenza – un vulnus di tutele, in spregio del diritto di difesa dei privati cittadini. Lapalissiana sarebbe, dunque, anche la violazione del diritto di difesa, giusta art. 24 Cost. Si pensi, a titolo esemplificativo, al rilascio di permessi di costruire illegittimi, ovvero alla condotta di reiterata e sistematica sanatoria di abusi edilizi, nell’intento di favorire taluni esponenti dell’imprenditoria edile.
Quanto alla violazione dell’art. 117 Costituzionale, si prenda in esame quanto di seguito disposto. Preme ribadire che, sulla scorta delle sentenze della Consulta 8/2022 e 37/2019, la violazione degli obblighi euro-unitari ovvero convenzionali, e, in generale, internazionali, non pongono ostacoli all’intervento con effetti in malam partem della Corte Costituzionale, rispetto alla dichiarazione di incostituzionalità di una lex abrogans, con contestuale riviviscenza della norma incriminatrice abrogata. L’abrogazione dell’art. 323 c.p. (richiamato anche dall’art. 322 bis c.p.) avrebbe, nientemeno, implicato la violazione dei seguenti parametri normativi: (i) La legge del Parlamento n. 116/2009, di ratifica della Convenzione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite del 2003, contro la corruzione (c.d. Convenzione di Merida), adottata dall’Assemblea Generale dell’O.N.U., il 31 ottobre 2003, con risoluzione n. 58/4, firmata dallo Stato italiano il 9 dicembre 2003; (ii) La Legge n. 300/2000, di ratifica ed esecuzione della Convenzione contro la corruzione internazionale, adottata sempre dalla Assemblea generale dell’O.N.U. del 31 ottobre 2003; e, successivamente, modificata dalle seguenti fonti: Legge n. 116/2009, Legge n. 190/2012, Legge n. 237/2012, Legge n. 3/2019, d.lgs. 14 luglio 2020, n. 75, d.lgs. n. 156/2022; (iii) La Direttiva Euro-unitaria n. 2017/1371, del Parlamento europeo e del Consiglio, del 5 luglio 2017, in tema di “lotta contro le frodi che ledono gli interessi finanziari dell’Unione” (c.d. “Direttiva PIF” - direttiva per la protezione interessi finanziari). Peraltro, l’avvenuta abrogazione dell’abuso d’ufficio, nonché la sua sostituzione con l’art. 314 bis c.p. nell’ambito dell’art. 322 bis c.p., si ritiene abbia reso inottemperante lo Stato Italiano, rispetto agli obblighi comunitari di cui all’art. 4, comma 3 della Direttiva UE 2017/1371. Ad essere violata sarebbe stata, anche, la “Proposta di Direttiva” denominata “lotta contro la corruzione, che sostituisce la decisione quadro 2003/568/GAI del Consiglio e la convenzione relativa alla lotta contro la corruzione nella quale sono coinvolti funzionari delle Comunità europee o degli Stati membri dell’Unione europea, e che modifica la direttiva (UE) 2017/1371 del Parlamento europeo e del Consiglio”.


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