CGUE- google e sanzioni antitrust

Commento dell'Avv. Elena Berto
Google – controllata, al 100%, da Alphabet – è una società statunitense specializzata nei prodotti e nei servizi connessi all’utilizzazione di Internet.
La società è, principalmente, nota, per il suo motore di ricerca, che consente agli utenti di Internet (cc.dd. “consumatori”) di trovare e di raggiungere, con il browser che essi utilizzano, nonché mediante collegamenti ipertestuali, i siti che rispondono alle loro esigenze.
Il 27 giugno 2017, la Commissione ha rinvenuto la sussistenza di “ pratiche dagli effetti anticoncorrenziali”, conseguenti dalla posizione dominante assunta da Google, da un lato, nel (i) “mercato dei servizi di ricerca generale su Internet”; e, dall’altro lato, nel (ii) “mercato dei servizi di comparazione di prodotti su Internet”.
Per quanto riguarda i “mercati della ricerca generale”, gli effetti anticoncorrenziali sarebbero derivati dal fatto che le risorse supplementari ricavate dal comparatore di prodotti di Google avrebbero consentito un rafforzamento del servizio di ricerca. Per quanto riguarda i “mercati della ricerca specializzata per la comparazione di prodotti”, le pratiche in questione avrebbero indotto i comparatori di prodotti concorrenti a cessare le loro attività; di poi, avrebbero avuto un impatto negativo sull’innovazione; e, infine, avrebbero potuto ridurre le possibilità dei consumatori di accedere a servizi più efficienti.
Di conseguenza, all’articolo 1 della Decisione della Commissione si è contestata, a Google, la violazione dell’art. 102 TFUE e dell’art. 54 dell’Accordo SEE.
La Commissione ha ingiunto a Google, in particolare, l’ordine di porre fine alle pratiche anticoncorrenziali in questione. È stato, inoltre, sottolineato che, indipendentemente dal fatto che Google scegliesse di mantenere o meno le Shopping Units ovvero altri gruppi di risultati di ricerca di comparazione di prodotti, nelle sue pagine di risultati generali, si sarebbe dovuta uniformare al principio del “trattamento non discriminatorio”, tra il comparatore di prodotti di Google e i comparatori concorrenti.
Infine, con l’articolo 2 della Decisione, la Commissione ha inflitto a Google un’ammenda dell’importo di euro 2.424.495.000, di cui euro 523.518. 000, in solido, con Alphabet.
I soggetti sanzionati hanno proposto ricorso, diretto all’annullamento della decisione controversa, e, in subordine, alla soppressione o alla riduzione dell’importo dell’ammenda inflitta.
Segnatamente, con la loro impugnazione, la Google LLC e la Alphabet Inc. chiedevano l’annullamento della sentenza del Tribunale dell’Unione europea del 10 novembre 2021, “ Google e Alphabet/Commissione – Google Shopping (T-612/17)”, mediante la quale detto giudice aveva annullato l’articolo 1 della decisione C(2017) della Commissione, del 27 giugno 2017, relativa al procedimento a norma dell’art. 102 TFUE e dell’art. 54 dell’Accordo SEE, nella misura in cui la Commissione europea aveva constatato una violazione delle disposizioni sopra citate, ad opera di Google e di Alphabet, all’interno dello Spazio economico europeo (SEE), sulla base dell’esistenza di pratiche ad effetti anticoncorrenziali.
A sostegno del suo ricorso, Google deduceva sei motivi.
Con i primi due motivi, si asserva che che la decisione della Commissione avrebbe concluso, erroneamente, in ordine al fatto che Google favorisse i propri servizi di comparazione dei prodotti, mostrando i Product Universals e le Shopping Units.
In terzo luogo, la decisione sarebbe risultata errata in quanto ha ritenuto che il posizionamento e la visualizzazione dei Product Universals e delle Shopping Units avrebbero sviato il traffico di ricerca.
In quarto luogo, Google ravvisava la natura “meramente congetturale” della Decisione della Commissione sugli “effetti anticoncorrenziali”, essendo la stessa, pertanto, priva di fondamento giuridico.
In quinto luogo, Google asseriva che la Decisione avrebbe qualificato, a torto, come ‘pratiche abusive’, “ dei miglioramenti qualitativi di ricerca che rappresentano una concorrenza basata sui meriti”.
In sesto luogo, si asseriva l’infondatezza delle ragioni giustificative in base alle quali la Decisione avrebbe imposto l’ammenda.
Il Tribunale di primo grado dell’Unione Europea respingeva il ricorso, convalidando l’analisi della Commissione, per quanto riguarda il mercato della ricerca specializzata per la comparazione dei prodotti. Per contro, per ciò che concerne i mercati nazionali della ricerca generale, il Tribunale U.E. reputava che la Commissione si fosse basata su considerazioni troppo imprecise per giustificare l’esistenza di ‘effetti anticoncorrenziali’, anche solo ‘potenziali’.
Pertanto, il Tribunale U.E. annullava la decisione controversa soltanto con riguardo alla contestazione della violazione, da parte di Google e di Alphabet, degli artt. 102 TFUE e 54 dell’Accordo SEE, in tredici mercati nazionali della ricerca generale all’interno del SEE, sulla base dell’esistenza di effetti anticoncorrenziali in tali mercati, e ha respinto il ricorso quanto al resto. In virtù della sua competenza estesa al merito, esso ha confermato l’intero importo dell'ammenda inflitta dalla Commissione alle ricorrenti.
Di talché all’udienza – innanzi alla Corte di Giustizia dell’U.E. – del 19 settembre 2023, le ricorrenti precisavano la loro richiesta di annullamento della sentenza impugnanda, unicamente nella misura in cui il Tribunale U.E. aveva respinto il loro ricorso in primo grado, circostanza, questa, invero, di cui si è preso atto, altresì, nel verbale d’udienza.
Pertanto, le ricorrenti rinuncivano all’impugnazione laddove questa era diretta contro la parte della sentenza impugnata con la quale il Tribunale U.E. aveva accolto i capi delle conclusioni da essi formulati.
A sostegno della loro impugnazione, le ricorrenti deducevano quattro motivi.
Il primo motivo verteva su un “errore di diritto”, in quanto il Tribunale U.E. avrebbe confermato la Decisione della Commissione, sebbene quest’ultima non soddisfacesse il criterio giuridico richiesto per constatare l’esistenza di un obbligo di fornire un accesso ai comparatori di prodotti.
Il secondo motivo verteva, ancora, su un ulteriore ravvisato “errore di diritto”, in quanto il Tribunale U.E. avrebbe aderito alla Decisione della Commissione sebbene quest’ultima, suo malgrado, non identificasse un comportamento che si discostava dalla “concorrenza basata sui meriti”.
Il terzo motivo, di poi, verteva su “errori probatori e d’istruttoria” del Tribunale U.E., con riguardo specifico all’esame del nesso di causalità tra l’asserito abuso e i probabili effetti.
Il quarto motivo, infine, verteva su un “errore valutativo” del Tribunale U.E., in quanto avrebbe ritenuto che la Commissione non dovesse esaminare l’idoneità del comportamento di Google rispetto all’esclusione di concorrenti “altrettanto efficaci” nel mercato concorrenziale di riferimento all’interno dello spazio economico europeo.
La Corte (Grande Sezione) ha respinto l’impugnazione dei ricorrenti per le seguenti ragioni.
La Corte conferma e aderisce, pienamente, alla “sussunzione giuridica”, operata dalla Commissione e dal Tribunale U.E., nell’alveo delle pratiche vietate dall’art. 2 del T.F.U.E., delle fattispecie concrete oggetto di contestazione, vale a dire: da un lato, (i) il posizionamento e la presentazione, più favorevoli, dei propri risultati specializzati, da parte di Google, nelle sue pagine di risultati generali, rispetto a quelli dei risultati dei comparatori di prodotti concorrenti; e, dall’altro, (ii) la concomitante retrocessione, da parte di algoritmi di aggiustamento, dei risultati dei comparatori di prodotti concorrenti.
La C.G.U.E. muove, anzitutto, dall’analisi dell’art. 2 del T.F.U.E.1, per poi passare alla sussunzione e qualificazione giuridica delle condotte contestate.
Una peculiare condotta contestata a Google è quella – tipica delle imprese cc.dd. “superdominanti ” – consistita nell’aver applicato, ai propri prodotti o servizi, un trattamento “più favorevole”, di quello concesso a quelli dei suoi concorrenti.
Nientemeno, alla luce delle caratteristiche del mercato a monte, nonché delle circostanze specifiche rilevate, il comportamento in questione, con le sue due componenti, ossia (i) la valorizzazione dei propri risultati e (ii) la retrocessione di quelli degli operatori concorrenti, è stato considerato, da un lato, “discriminatorio”, e, dall’altro, non rientrante nella “concorrenza basata sui meriti”.
Quanto, di poi, all’analisi del “nesso di causalità” tra l’asserito abuso e i suoi probabili effetti, e, quindi, l’analisi dell’impatto di tale comportamento sul traffico generato dalle pagine di risultati generali di Google, verso i comparatori di prodotti concorrenti, si prenda in esame quanto di seguito disposto.
Secondo le ricorrenti il Tribunale U.E. avrebbe invertito l’onere della prova, confermando la Decisione della Commissione, senza intraprendere un’analisi controfattuale, al fine di dimostrare il nesso di causalità tra il “comportamento anticoncorrenziale” e i “suoi effetti”. Sicché gli elementi relativi alla ‘variazione del traffico dalle pagine di risultati generali’ di Google, verso i comparatori di prodotti concorrenti, nonché verso il suo stesso comparatore di prodotti, avrebbero costituito, non “effetti anticoncorrenziali reali”, bensì, meri “elementi di prova tangibili”, sui quali si sarebbe fondata la constatazione dei potenziali effetti anticoncorrenziali, del comportamento in questione.
A questo proposito, la Corte di Giustizia dell’U.E., acutamente, osserva, anzitutto, che il “nesso di causalità” è uno degli elementi costitutivi indefettibili di una violazione del diritto della concorrenza, che spetta alla Commissione provare, secondo le regole generali di “assunzione delle prove”. Per contro, spetta all’impresa che solleva un motivo di difesa contro la constatazione di una siffatta infrazione fornire la prova che tale mezzo difensivo deve essere accolto2.
Il ragionamento valutativo del Tribunale U.E. può dirsi ineccepibile, altresì, per quanto riguarda “l’utilità dell’analisi controfattuale”, nell’ambito delle “prove pertinenti”, alla luce dell’art. 2 T.F.U.E.
Segnatamente, nessuna delle pratiche in questione, considerata separatamente, aveva sollevato obiezioni in materia di concorrenza, posto che da doversi mettere in discussione erano le pratiche “combinate”, che, da un lato, valorizzavano il comparatore di prodotti di Google, e, dall’altro, svalorizzavano i comparatori di prodotti concorrenti nelle pagine di risultati generali di Google.
Conseguentemente, l’analisi degli effetti di tali pratiche combinate non si sarebbe potuta effettuare isolando gli effetti di una pratica da quelli dell’altra pratica. Di modo ché l’analisi degli effetti del comportamento in questione, sui comparatori di prodotti concorrenti, non si sarebbe potuta limitare all’impatto che avrebbe potuto avere, su di essi, la comparsa di risultati del comparatore di prodotti di Google, nei Product Universals e nelle Shopping Units.
Piuttosto, si sarebbe dovuto tener conto, anche, dell’impatto degli algoritmi di aggiustamento dei risultati generici, cosicché l’unico scenario controfattuale che Google avrebbe potuto, validamente, mettere in evidenza, sarebbe stato quello in cui nessuna componente di tale comportamento veniva attuata, salvo considerare solo parzialmente gli effetti combinati di detto comportamento. Sicché, solo la combinazione delle due pratiche in questione ha influenzato il comportamento degli utenti in modo tale che il traffico in provenienza dalle pagine di risultati generali di Google è stato sviato, a vantaggio del suo comparatore di prodotti e a scapito dei comparatori di prodotti concorrenti. Pertanto, tale sviamento del traffico si basava tanto sul posizionamento e sulla presentazione preferenziali dei risultati di ricerca del comparatore di prodotti di Google nelle “boxes”, quanto sulla parallela retrocessione effettuata dagli algoritmi di aggiustamento e sulla presentazione meno attraente dei risultati di ricerca dei comparatori di prodotti concorrenti, il che faceva sfuggire questi ultimi all’attenzione degli utenti3.
Per quanto riguarda, di poi, la questione se dell’art. 2 T.F.U.E. implichi un obbligo sistematico per la Commissione di esaminare l’efficacia dei concorrenti reali o ipotetici dell’impresa in posizione dominante, non v’è chi non veda come – certamente – l’obiettivo di tale articolo non risulti essere quello di garantire che concorrenti “meno efficaci” dell’impresa in posizione dominante rimangano sul mercato.
Tuttavia, da ciò non deriva che qualsiasi constatazione di un’infrazione, alla luce di tale disposizione, sia subordinata alla dimostrazione che il comportamento di cui trattasi è idoneo ad estromettere un concorrente altrettanto efficace.
La valutazione della capacità del comportamento in questione di estromettere un concorrente altrettanto efficace, evocata da Google quale principio sotteso all’applicazione dell’art. 2 T.F.U.E., appare, in particolare, pertinente, “qualora l’impresa in situazione dominante abbia sostenuto, nel corso del procedimento amministrativo, elementi di prova alla mano, che il suo comportamento non ha avuto la capacità di restringere la concorrenza e, in particolare, di produrre gli effetti estromissivi addebitati. In un caso siffatto, la Commissione è non soltanto tenuta ad analizzare l’importanza della posizione dominante dell’impresa sul mercato di riferimento, ma è tenuta anche a valutare l’eventuale esistenza di una strategia volta ad estromettere i concorrenti almeno altrettanto efficaci” (Cfr sentenza del 6 settembre 2017, Intel/Commissione, C-413/14).
Nel caso di specie, l’abuso è consistito nel posizionamento “più favorevole” che Google ha riservato, nelle pagine del suo motore di ricerca generale, al proprio comparatore di prodotti, rispetto ai comparatori di prodotti concorrenti.
In particolare, all’evidenza, è stato dimostrato che allorquando la capacità competitiva di un comparatore di prodotti dipenda dal traffico che si riesce ad influenzare, è provato in sé per sé, il fatto che tale comportamento discriminatorio (nella specie di Google) possa avere un impatto significativo sulla concorrenza, alterando il traffico della rete, a beneficio dei propri comparatori di prodotti, senza che gli altri compratori possano compensare tale perdita di traffico, con il ricorso ad altre fonti. Nel caso di specie, peraltro, un maggiore investimento in fonti alternative non avrebbe costituito una soluzione “economicamente sostenibile”.
Pertanto, il Tribunale bene ha fatto – secondo la Grande Sezione della Corte di Giustizia U.E. – ad affermerare che che non sarebbe stato possibile, per la Commissione, ottenere risultati obiettivi e affidabili, riguardo all’efficacia dei concorrenti di Google alla luce delle condizioni specifiche del mercato in questione. Ne consegue che il Tribunale U.E. non sarebbe incorso in alcun errore di diritto; statuendo, da un lato, che un siffatto criterio non riveste carattere imperativo nell’ambito dell’attuazione dell’art. 2 T.F.U.E., e, dall’altro, che, nelle circostanze del caso di specie, tale criterio non sarebbe pertinente.
1 L’art. 2 T.F.U.E., invero, “sanziona non già l’esistenza stessa di una posizione dominante, ma solo lo sfruttamento abusivo di quest’ultima” (Cfr sentenza del 21 dicembre 2023, European Superleague Company, C-333/21). Giustappunto, “la norma non mira né ad impedire alle imprese di conquistare, grazie ai loro meriti, una posizione dominante su uno o più mercati, né a garantire che rimangano sul mercato imprese concorrenti meno efficaci di quelle che detengono una siffatta posizione. Al contrario, la concorrenza basata sui meriti può, per definizione, portare alla scomparsa o all’emarginazione di imprese concorrenti meno efficaci e dunque meno interessanti per i consumatori in termini, segnatamente, di prezzo, produzione, scelta, qualità o innovazione” (Cfr sentenza del 21 dicembre 2023, European Superleague Company, C-333/21). Per poter ritenere, in un determinato caso, che un comportamento debba essere classificato come “sfruttamento abusivo di una posizione dominante”, ai sensi dell’art. 2 T.F.U.E., è necessario, per regola generale, dimostrare che, “ricorrendo a mezzi diversi da quelli che regolano la concorrenza basata sui meriti tra le imprese, tale comportamento avrebbe come “effetto concreto” o “potenziale” di limitare tale concorrenza, escludendo imprese concorrenti altrettanto efficaci dal mercato o dai mercati interessati, o impedendo il loro sviluppo su tali mercati, fermo restando che questi ultimi potrebbero essere sia quelli in cui è detenuta la posizione dominante, sia quelli, collegati o vicini, in cui detto comportamento è destinato a produrre i suoi effetti concreti o potenziali” (Cfr sentenza del 21 dicembre 2023, European Superleague Company, C-333/21). Questa dimostrazione deve però essere effettuata “valutando tutte le circostanze di fatto pertinenti, indipendentemente dal fatto che esse riguardino il comportamento stesso, il mercato o i mercati in questione o il funzionamento della concorrenza su questo o questi mercati. Inoltre, tale dimostrazione deve cercare di stabilire, fondandosi su elementi di analisi e di prova precisi e concreti, che detto comportamento ha, quanto meno, la capacità di produrre effetti di esclusione dal mercato” (Cfr sentenza del 21 dicembre 2023, European Superleague Company, C-333/21). Al di là dei soli comportamenti che hanno per effetto, concreto o potenziale, di restringere la concorrenza basata sui meriti, estromettendo imprese concorrenti parimenti efficaci dal mercato o dai mercati interessati, possono essere qualificati come “sfruttamento abusivo di una posizione dominante” anche >“comportamenti rispetto ai quali sia dimostrato che essi hanno come effetto concreto o potenziale, od anche come obiettivo, quello di impedire, in una fase preliminare, mediante la creazione di barriere all’ingresso o il ricorso ad altre misure ostruttive, o ad altri mezzi diversi da quelli che regolano la concorrenza basata sui meriti, ad imprese potenzialmente concorrenti anche solo di accedere a detto o a detti mercati e, in tal modo, di impedire lo sviluppo della concorrenza su questi mercati a danno dei consumatori, limitando negli stessi la produzione, lo sviluppo di prodotti o di servizi alternativi, od anche l’innovazione”
2 Più nello specifico, la C.G.U.E. chiarisce come: “al fine di stabilire gli effetti reali o potenziali delle pratiche esaminate, la Commissione può basarsi su elementi tratti dall’osservazione dell’evoluzione reale del mercato o dei mercati interessati da tali pratiche. Se si osserva una correlazione tra queste pratiche e il cambiamento della situazione concorrenziale su tali mercati, eventuali elementi supplementari, che possono includere, ad esempio, valutazioni da parte degli operatori del mercato, dei loro fornitori, dei loro clienti, di associazioni di categoria o di consumatori, possono dimostrare il nesso causale tra il comportamento in questione e l’evoluzione del mercato. È su tali criteri di analisi che il Tribunale U.E. si è basato, per procedere all’esame concreto del rapporto di causalità tra il comportamento in questione e la riduzione del traffico dalle pagine di risultati generali di Google verso la maggior parte dei comparatori di prodotti concorrenti, esame al termine del quale il Tribunale U.E. ha constatato che la Commissione aveva dimostrato che le pratiche in questione avevano comportato una riduzione del traffico di ricerca generico verso quasi tutti i comparatori di prodotti concorrenti. In tale contesto, il Tribunale U.E. ha statuito che, nell’ambito della ripartizione dell’onere della prova, un’impresa può far valere un’analisi controfattuale al fine di contestare la valutazione della Commissione degli effetti potenziali o reali del comportamento in questione”. Orbene, il Tribunale U.E. non avrebbe né invertito l’onere della prova, che incombe sulla Commissione, per quanto riguarda l’obbligo di dimostrare il nesso di causalità tra il comportamento in questione e i suoi effetti, né escluso l’utilità di un’analisi controfattuale. Esso si è limitato a constatare che la Commissione può basarsi su un insieme di elementi probatori, senza che essa sia tenuta a ricorrere, sistematicamente, ad uno strumento unico per dimostrare l’esistenza di un siffatto nesso di causalità. Tale approccio è, del resto, conforme alla giurisprudenza della Corte di Giustizia medesima.
3 Nientemeno, “poiché l’aumento del traffico a favore dei risultati di ricerca del comparatore di prodotti di Google e la riduzione del traffico dalle sue pagine di risultati generali verso i comparatori di prodotti concorrenti, sui quali si basano i potenziali effetti anticoncorrenziali del comportamento in questione, derivavano da un’applicazione congiunta delle due pratiche in questione, uno scenario controfattuale appropriato doveva altresì consentire di esaminare la probabile evoluzione del mercato in assenza di queste due pratiche e non soltanto in assenza di una di esse”.
