Commento reati tributari

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Sentenza

Commento dell'Avv. Elena Berto


La vicenda de qua si riferisce ad un’ipotesi di inveramento del reato di cui all’art. 5 del D.Lgs. n. 74 del 2000, rubricato, invero, “omessa dichiarazione”.

Prima di procedere con l’analisi della vicenda giudiziaria che soggiace alla pronuncia quivi commentata, gioverà – brevemente – descrivere la struttura della fattispecie incriminatrice in esame, anche ai fini di una migliore comprensione del caso analizzato.

Quanto alla condotta, la fattispecie incriminatrice punisce il contribuente (ed il sostituto d’imposta) che non presenti, essendovi obbligato, una delle dichiarazioni relative alle imposte sui redditi o sul valore aggiunto, in caso di superamento della soglia di punibilità.

In giurisprudenza, invero, si è chiarito che: “in tema di reati tributari, al fine della verifica del superamento della soglia di punibilità di cui all’art. 5 del D.Lgs. n. 74 del 2000, il giudice può legittimamente avvalersi dell’accertamento induttivo dell’imponibile compiuto dagli uffici finanziari. Infatti, non è vietato al giudice penale di avvalersi, ai fini, in generale, della prova della sussistenza degli elementi costitutivi dei reati tributari, ivi compreso quello di cui all’art. 5 del D.Lgs. n. 74 del 2000, delle risultanze degli accertamenti operati in sede tributaria, ciò discendendo, se non altro, dal principio di atipicità dei mezzi di prova.” (Cfr Tribunale Cassino, 04/09/2023, n.1495).

Giovi precisare come, in giurisprudenza, con riguardo all’elemento oggettivo del reato in questione, è stato statuito che: “in tema di reati tributari, non integra il delitto di omessa dichiarazione la presentazione, nei termini previsti dalle leggi tributarie e nel rispetto delle soglie individuate, di una dichiarazione dei redditi incompleta, in quanto l’esaustiva individuazione normativa della condotta incriminata, consistente nella mancata presentazione della dichiarazione agli uffici competenti, non è suscettibile di lettura analogica, che si porrebbe in contrasto con il principio di legalità.” (Cfr Cassazione penale sez. III, 16/05/2023, n.32130).

Quanto all’elemento soggettivo del reato, il delitto è punito a titolo di dolo specifico , consistente nel fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, che si aggiunge alla coscienza e volontà di realizzare il fatto tipico (omessa presentazione della dichiarazione).

Relativamente all’elemento soggettivo, in giurisprudenza, si è chiarito che: “in tema di omessa dichiarazione, la mera consapevolezza dell’entità dell’imposta evasa non è sufficiente a provare la sussistenza del dolo specifico, richiesto per la configurabilità del reato, essendo necessario, a tal fine, che ricorrano elementi ulteriori, quali il mancato pagamento postumo di tale imposta in tempi ragionevoli o la reiterazione dell’omissione per più anni, dai quali possa essere tratta la convinzione che l’omissione sia finalizzata all’evasione.” (Cfr Cassazione penale sez. III, 04/07/2023, n.44170).

Secondo parte della Comunità degli Interpreti, l’elemento psicologico del reato in esame potrebbe essere ravvisato, altresì, nel dolo eventuale.

Segnatamente, in tal senso, si è precisato quanto segue: “in materia di reati tributari, ai fini della configurabilità del delitto di omessa dichiarazione, pur a fronte di due diversi orientamenti nella giurisprudenza della Cassazione, in tema di elemento soggettivo (per l’uno, il superamento della soglia di punibilità rappresentata dall’ammontare dell’imposta evasa ha natura di elemento costitutivo del reato e, come tale, deve formare oggetto di rappresentazione e volizione, anche a titolo di dolo eventuale, da parte dell’agente; per l’altro, invece, il superamento della soglia rappresentata dall’ammontare dell’imposta evasa costituisce una condizione oggettiva di punibilità, come tale sottratta alla rappresentazione del fatto da parte del soggetto agente), è comunque possibile fondare la responsabilità quanto meno a titolo di dolo eventuale, costituito, come è noto, dalla consapevolezza che l’evento, non direttamente voluto, ha probabilità di verificarsi in conseguenza della propria azione, nonché dall’accettazione di tale rischio, che potrà essere graduata a seconda di quanto maggiore o minore l’agente consideri la probabilità di verificazione dell’evento [come nella vicenda sub iudice, dove gli imputati avevano omesso dolosamente di presentare, pur essendovi obbligati, la dichiarazione, omettendo di dichiarare elementi attivi di notevole entità, accettando, dunque, il rischio, che l’ammontare dell’imposta evasa fosse superiore alla soglia di punibilità].” (Cfr Cassazione penale sez. V, 03/02/2023, n.21638).

Pacificamente, ai fini della configurabilità del reato di omessa dichiarazione fiscale non si reputa sufficiente il dolo generico.

Siffatto assunto è stato, di recente, confermato in giurisprudenza (Cfr Cassazione penale sez. III, 07/06/2019, n.36474): “in materia di reati tributari - e, segnatamente, con riferimento al reato di omessa dichiarazione fiscale - per quanto concerne l’elemento soggettivo del reato, valgono i principi generali posti dagli artt. 42 e 43 cp, per cui - attesa la natura di reato a dolo specifico - ai fini della punibilità dell’autore del reato, nella specie l’amministratore di diritto/prestanome, non è sufficiente il dolo generico, ma si richiede invece il dolo specifico di evasione che necessita di rigorosa prova, che non può essere affidata alla semplice, quanto irrilevante, affermazione fondata sul precetto della inescusabilità dell’ignoranza della legge penale contenuto nell’art. 5 cp. La circostanza di essere il legale rappresentante della società, se di regola normalmente esclude che l’imprenditore possa difendersi evocando il disposto dell’art. 5 cp, non è ex se sufficiente, in mancanza di ulteriori elementi, a far ritenere provato il dolo specifico normativamente richiesto ai fini della perseguibilità penale del fatto di cui all’art. 5 D.Lgs. 74 del 2000. Proprio perché il più delle volte il prestanome non ha alcun potere d’ingerenza nella gestione della società, il fatto gli può essere addebitato, a titolo di concorso con l’amministratore di fatto, a norma dell’art. 2392 cc e 40, comma 2 cp, a condizione che ricorra l’elemento soggettivo proprio del singolo reato. Occorre, dunque, che il giudice di merito individui, al di là della mera assunzione della carica di amministratore di diritto, ulteriori elementi che corroborino, sotto il profilo soggettivo, la sussistenza del dolo specifico normativamente richiesto ai fini della perseguibilità penale della sua condotta.”.

È prevista la non punibilità della condotta, allorquando i debiti tributari, comprensivi di sanzioni ed interessi, siano stati estinti mediante pagamento integrale degli importi dovuti, a seguito di ravvedimento operoso o della presentazione della dichiarazione, sempreché questi siano avvenuti prima che l’autore del reato abbia avuto formale conoscenza degli accessi, ispezioni, verifiche o dell’inizio di qualunque attività di accertamento amministrativo o di procedimenti penali.

In ordine alla non punibilità, occorre precisare come, con riferimento ai reati tributari dichiarativi richiamati dall’art. 13, comma 2, del D. Lgs. 74 del 2000 (ossia quelli contemplati dagli artt. 2, 3, 4 e 5), l’integrale pagamento del debito (comprensivo di sanzioni amministrative e interessi) assume una duplice connotazione. Segnatamente, (i) se esso si verifica prima della formale conoscenza dell’avvio di ispezioni e verifiche o di attività di accertamento penale, integra causa di non punibilità. (ii) Se, invece, il pagamento avviene, successivamente, ma prima dell’apertura del dibattimento, consente all’imputato di accedere al patteggiamento e ai correlativi benefici premiali, integrando, al contempo, la circostanza attenuante, ex art. 13 bis, comma 1, D.Lgs. 74 del 2000.

Quanto al momento di consumazione del reato, questo si rinviene, solitamente, alla scadenza del termine dilatorio di 90 giorni, concesso al contribuente, per presentare la dichiarazione, successivamente, alla scadenza del termine ordinario.

Infine, il reato è sanzionato con la reclusione da 2 a 5 anni. Giunti a questo punto della dissertazione, gioverà procedere con l’analisi della vicenda processuale oggetto della sentenza annotata.

Con sentenza del 15 dicembre 2023, la Corte di appello di Bologna riformava, parzialmente, la sentenza del Tribunale di Rimini, del 14 giugno 2021, con la quale era stata disposta condanna, in ordine ai reati di cui agli artt. 81, 110 c.p. e 5 del D.Lgs. 74 del 2000, dichiarando non doversi procedere nei confronti dell’imputato, limitatamente ai reati commessi durante il periodo di imposta del 2011; perché estinti per intervenuta prescrizione. Sicché i giudici di seconde cure riducevano la pena e l’ammontare oggetto di confisca; confermando, nel resto, la sentenza impugnata.

Avverso la predetta sentenza ha proposto ricorso il condannato con un unico motivo di impugnazione; deducendo il vizio di violazione di legge e di motivazione; nonché contestando il metodo induttivo puro, seguito dai giudici, siccome basato solo sull’analisi delle movimentazioni bancarie, per la ricostruzione dei volumi di affari; atteso che gli ulteriori dati, costituiti, per i giudici, dai riscontri su questionari visionati da un teste, non sarebbero risultati rilevanti, in assenza della indicazione precisa delle cifre esattamente ricostruite.

Si contesta anche la valorizzazione, da parte del giudice, di un dato, “pari a zero”, quanto agli elementi passivi; e si lamenta l’inversione dell’onere probatorio, in punto di prova di tali costi, per l’anno di imposta del 2012.

Si aggiungeva che i notevoli importi oggetto di assegni, per il 2012, avrebbero dovuto essere ritenuti come indicativi di costi per quell’anno; e, comunque, fondamento per l’applicazione del principio del favor rei; in presenza di un ragionevole dubbio sulla sua responsabilità.

Tre assegni, comunque, sarebbero stati, chiaramente, dimostrativi, dei costi affrontati dal ricorrente, così da potersi ridurre l’IVA, ritenuta evasa, al di sotto della soglia di punibilità.

Si aggiungeva che non si sarebbe potuto escludere che parte delle entrate fosse da ascrivere a vincite al gioco dell’imputato. Inoltre, anche la base imponibile dell’Ires sarebbe stata determinata con accertamenti induttivi.

Il ricorso è stato considerato manifestamente infondato.

Ben sarebbe stata accertata la responsabilità penale dell’imputato, sulla base di un puntuale esame probatorio.

La prova dei fatti, invero, non sarebbe stata desunta, esclusivamente, da movimentazioni bancarie; ma anche da questionari inviati a soggetti che avevano intrattenuto rapporti con la società del ricorrente e da fatture; come da stralci di dichiarazioni pure riportati in sentenza.

Pertanto, nel caso di specie – secondo i giudici – avrebbe trovato coerente applicazione il principio per cui, in materia di reati tributari, il giudice penale, mentre non è vincolato dalle valutazioni compiute in sede di accertamento fiscale, può, tuttavia, con adeguata motivazione, apprezzare, così come avvenuto nel caso di specie, tutti gli elementi, anche, se del caso, induttivi, in detta sede valorizzati, per trarne risultanze probatorie, che ritenga idonee a sorreggere il suo convincimento obiettivo (Sez. 3 - n. 24225 del 14/03/2023; Sez. 3, n. 8319 del 10/06/1994).

Sulla predetta tematica, poi, la tesi difensiva, della mancata produzione dei questionari e, più in generale, della mancata specificazione dei contenuti dei questionari, è stata considerata del tutto generica; e, quindi, inammissibile. Laddove, di contro, la valorizzazione, rispetto al solido quadro indiziario sorto alla luce dei criteri probatori, del silenzio ovvero della inerzia dell’imputato nell’offrire giustificazioni diverse rispetto ai dati bancari valorizzati dai giudici, non dà luogo a violazione dell’onere della prova; bensì attiene al tema dell’onere difensivo, a fronte dell’emergere di elementi già di per sé delineanti disegni d’accusa.

In proposito, è stato ribadito il principio per cui, in tema di valutazione della prova, è consentito al giudice, nella formazione del suo libero convincimento, di trarre dal comportamento dell’imputato argomenti utili per la valutazione di circostanze ‘aliunde’ acquisite, senza che ciò possa determinare alcun sovvertimento del riparto dell’onere probatorio (Sez. 4 - n. 22105 del 02/05/2023).

Introduttivo di valutazioni di fatto, inammissibili, in sede di legittimità, è, anche, il riferimento circa l’asserita rilevanza per la determinazione dei costi di taluni assegni.

In tale quadro, i giudici hanno anche validamente dato conto della bontà dei criteri seguiti, per individuare i costi sopportati dall’imputato, alla luce della consolidata giurisprudenza, secondo la quale in tema di reati tributari, il giudice, per determinare l’ammontare dell’imposta evasa, è tenuto ad operare una verifica che, pur non potendo prescindere dai criteri di accertamento dell’imponibile stabiliti dalla legislazione fiscale, soffre delle limitazioni che derivano dalla diversa finalità dell’accertamento penale e dalle regole che lo governano, sicché, nel caso in cui i ricavi non indicati nelle dichiarazioni fiscali obbligatorie siano individuati sulla base non di presunzioni, ma di precisi elementi documentali, quali le entrate registrate nella contabilità o nei conti correnti bancari, i correlativi costi possono essere riconosciuti solo in presenza di allegazioni fattuali da cui desumere la certezza o, comunque, il ragionevole dubbio della loro esistenza (Sez. 3 - n. 17214 del 14/03/2023; Sez. 5, n. 40412del 13/06/2019, e Sez. 3, n. 37094 del 29/05/2015).

E, ancora, ai fini della configurabilità del reato di omessa dichiarazione IRPEF o IVA, il giudice, nel determinare l’ammontare dell’imposta evasa, sulla base della contrapposizione tra ricavi e costi di esercizio detraibili, può fare ricorso alle risultanze delle indagini bancarie svolte nella fase dell’accertamento tributario, a condizione che proceda ad autonoma verifica di tali dati indiziari unitamente ad elementi di riscontro, eventualmente acquisiti anche ‘aliunde’, che diano certezza dell’esistenza della condotta criminosa, privilegiando il dato fattuale reale rispetto a quello di natura meramente formale che caratterizza l’ordinamento fiscale (Sez. 3, del 02/03/2016).

Consegue che appare coerente anche il rilievo, in tema di costi, per cui mentre a seguito di richiesta di esibizione il ricorrente si è premurato di presentare elementi dimostrativi di costi affrontati per l’anno 2011, la mancanza di analoga condotta, a fronte della assenza di dati obiettivi riferiti a costi per il 2012, ha impedito la considerazione della esistenza dei medesimi per tale ultimo periodo di imposta.

Tanto più a fronte di quanto rappresentato da un teste operante - senza confutazioni al riguardo - circa la possibilità che una particolare tipologia di attività del ricorrente potesse avere escluso costi a suo carico.

Di contro, le obiezioni difensive appaiono meramente ipotetiche, e, soprattutto, frutto di rivalutazioni personali di dati, invero solo di alcuni dati disponibili, tuttavia non esaminabili in sede di legittimità.

Occorre dare atto, per onestà intellettuale, di poi, circa il contrasto giurisprudenziale, esistente tra l’indirizzo ermeneutico della giurisprudenza penale e l’indirizzo ermeneutico della giurisprudenza civile di legittimità, concernente la specifica ipotesi dei ricavi accertati induttivamente, sulla base dei prelievi ingiustificati, che un imprenditore effettua dai conti correnti bancari. Ben diversa, a ben vedere, però, è la situazione, quale deve ritenersi quella in esame, in cui i ricavi sono accertati sulla base di entrate registrate nei conti correnti, ma non anche nella contabilità.

In questi casi, infatti, l’entità dei ricavi deve ritenersi complessivamente certa alla luce dei criteri di analisi seguiti dai giudici.

Al contrario, la presunzione della produzione di ricavi da prelevamenti effettuati da rapporti bancari, quando tali prelevamenti non risultano dalle scritture contabili, e di essi il contribuente non indica il soggetto beneficiario, attiene a somme erogate per fronteggiare costi, dai quali si inferisce la generazione di ricavi.

Come efficacemente precisato dalla Corte costituzionale, la presunzione in questione costituisce una “presunzione che, quanto all’equiparazione dei prelevamenti ai ricavi, è in realtà duplice (o di secondo grado): i prelievi sarebbero utilizzati per sostenere costi occulti, i quali a loro volta avrebbero generato pari ricavi non risultanti, anch’essi, dalla contabilità dell’imprenditore” (Cfr Corte Costituzionale n. 10 del 2023).

È stato, quindi, ribadito che, almeno quando i ricavi non indicati nelle dichiarazioni fiscali obbligatorie sono individuati nei conti correnti bancari, base non di presunzioni, ma di precisi elementi documentali, i correlativi costi possono essere riconosciuti solo in presenza di allegazioni fattuali da cui desumere la certezza o, comunque, il ragionevole dubbio della loro esistenza.

Quindi appare insuperabile e incensurabile la conclusione secondo cui, nella specie, non possono essere riconosciuti costi superiori a quelli individuati, stante l’assoluta mancanza di allegazione di pertinenti elementi di prova e, addirittura, di indicazione delle voci relative a detti costi.

Sulla base delle considerazioni che precedono, la Corte ha ritenuto, pertanto, che il ricorso dovesse essere dichiarato inammissibile, con conseguente onere per il ricorrente, ai sensi dell’art. 616 c.p.p., di sostenere le spese del procedimento.

Tenuto, poi, conto della sentenza della Corte costituzionale in data 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi è stata ragione di ritenere che il ricorso fosse stato presentato senza “versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità”, si è dispone che il ricorrente versasse una somma, determinata in via equitativa, in favore della Cassa delle Ammende.

Sicché è stato dichiarato inammissibile il ricorso e, per l’effetto, condannato il ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché della pena pecuniaria in favore della Cassa delle Ammende.


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