Commento Consiglio di Stato sez. II - 19:08:2024, n. 7166

Commento dell'Avv. Elena Berto
La presente vicenda muove dall’accertamento della ‘doppia conformità’, ex art. 36 del d.P.R. 6 giugno 2001 n. 380, di opere eseguite in “difformità”, rispetto ai precedenti titoli abilitativi, realizzate presso il complesso immobiliare di proprietà della controinteressata (I.C.M.A. S.r.l.), articolato in capannoni con locali e servizi (Corpo A), ed annessa palazzina uffici ed abitazione del proprietario (Corpo B).
I ricorrenti, titolari del requisito della “vicinitas”, poiché proprietari dell’immobile immediatamente adiacente a quello di proprietà della controinteressata, (che, peraltro, gode di una servitù di passaggio sull’area medesima), invero, proponevano ricorso (n. 3061 del 2019), giusta art. 29 c.p.a., innanzi al TAR Napoli, per l’annullamento del provvedimento del Comune di Casalnuovo di Napoli, inerente il settore della “pianificazione e servizi urbanistici e lavori pubblici”, n. 38 del 26 settembre 2018, rilasciato alla I.C.M.A. s.r.l.
Il provvedimento impugnato, segnatamente, e, più specificatamente, aveva ad oggetto: “l’accertamento di conformità per la sanatoria delle opere eseguite in difformità ai titoli abilitativi al complesso artigianale/produttivo composto da capannoni con locali e servizi (Corpo A) ed annessa palazzina uffici ed abitazione del proprietario (Corpo B) sito alla via (omissis) oggetto di ordinanza di demolizione n. 8/2011 e ordinanza di ripristino n. 70/2011 ”.
Il Comune di Casalnuovo di Napoli e la I.C.M.A. s.r.l. si costituivano nel giudizio di primo grado, resistendo al ricorso.
Con sentenza n. 3715 del 3 giugno 2021, il TAR Napoli respingeva il ricorso, compensando, tra le parti, le spese di lite.
Con ricorso, ritualmente notificato e depositato, i ricorrenti in primo grado interponevano, altresì, appello avverso la su menzionata sentenza, articolando quattro motivi.
Il Comune di Casalnuovo di Napoli si costituiva in giudizio, chiedendo il rigetto del gravame.
La I.C.M.A. s.r.l. si costituiva in giudizio, eccependo la tardività del ricorso di primo grado; e, comunque, l’infondatezza dell’appello.
In vista dell’udienza di discussione, gli appellanti depositavano memorie aggiuntive, nonché memorie di replica.
Il Comune e la I.C.M.A. S.r.l., a loro volta, depositavano memorie, con le quali le parti, ulteriormente, illustravano le proprie tesi, così da insistere sulle rispettive posizioni.
La causa è stata trattenuta in decisione all’udienza pubblica dell’11 giugno 2024.
L’eccezione di tardività del ricorso di primo grado è stata reputata inammissibile, in quanto su di essa il TAR si sarebbe pronunciato, espressamente, respingendola, sicché avrebbe dovuto essere riproposta, con appello incidentale, notificato, e non con il deposito della memoria di costituzione; e, comunque, tutti gli adempimenti si sarebbero dovuti esperire nel termine di cui all’art. 101, comma 2 c.p.a., il che – nel caso di specie – non è avvenuto.
L’appello è stato reputato fondato; motivo per il quale è stato accolto alla stregua delle seguenti considerazioni.
Tramite la prima censura, gli appellanti hanno lamentato l’erronea declaratoria d’inammissibilità, del primo motivo del ricorso di primo grado; e hanno riproposto il predetto primo motivo, ai sensi dell’art. 101 c.p.a.
Siffatta doglianza è stata reputata fondata.
Il primo motivo del ricorso introduttivo (così come il secondo) è, invero, stato reputato ammissibile per due ordini di ragioni.
In primis, si chiarisce come: “far dipendere la legittimazione, dalla fondatezza della pretesa sostanziale, àncora la proiezione processuale della posizione giuridica soggettiva d’interesse legittimo, all’esito della lite, comportando, per tal via, un’inversione dell’ordine logico di analisi delle questioni, essendo la legittimazione un ‘prius logico e ontologico’ rispetto all’accoglimento dell’azione ”.
Diversamente opinando, la legittimazione a ricorrere si atteggerebbe “secundum eventus litis”; mentre, al contrario, essa va ancorata al rapporto sussistente tra la parte ricorrente e la posizione sostanziale fatta valere in giudizio.
Ciò posto, nel caso di specie, l’eventuale perdita d’interesse sostanziale a seguito di un eventuale accoglimento della declaratoria di acquisizione dell’area al patrimonio comunale (a titolo originario e con conseguente perdita del diritto di servitù) si situa sul piano ipotetico dell’interesse a ricorrere, e non in punto di legittimazione.
Ad ogni modo e, in via assorbente, si chiarisce come i signori ricorrenti abbiano agito, sin dall’inizio, sia (i) in quanto titolari di un immobile che gode di una servitù di passaggio sull’area interessata, sia (ii) in quanto vicini (avendo precisato nel ricorso di essere ‘proprietari di un immobile immediatamente adiacente a quello di proprietà della controinteressata I.C.M.A.’, la cui evidenziazione, in sede d’appello, a differenza di quanto sostenuto dalla I.C.M.A. s.r.l., non rappresenta un nuovo motivo, in spregio del divieto di cui all’art. 104 cpa, bensì una deduzione “critica” alla sentenza impugnazione). Sicché proprio la presenza del requisito della vicinitas (unito, come si vedrà, ad un interesse al ricorso) è, di per sé, bastante a fondare la legittimazione attiva degli appellanti, che – in caso di passaggio dell’area al patrimonio comunale – godrebbero, comunque, di un “vantaggio”; giacché le due proprietà costituiscono due parti contigue di un medesimo fabbricato e i manufatti oggetto di sanatoria restringono l’area di accesso alla proprietà degli odierni appellanti, nonché alla parte di proprietà esclusiva del piazzale interno.
In sostanza l’eliminazione delle opere abusive favorirebbe la migliore fruizione del piazzale e l’ingresso di mezzi di trasporto nel capannone degli appellanti, con conseguente inveramento tanto della (i) legitimatio ad causam, quanto (ii) dell’interesse ad agire, come richiesto dall’approdo ermeneutico enunciato dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 22 del 2021.
A tal proposito, giovi rimembrare come l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (Cfr Consiglio di Stato, Ad. Plen., 09/12/2021, n.22) , chiamata a pronunciarsi sulla sufficienza del criterio della vicinitas, per l’impugnazione dei titoli edilizi, ha formulato i seguenti principi di diritto: a) nei casi di impugnazione di un titolo autorizzatorio edilizio, riaffermata la distinzione e l’autonomia tra la legittimazione e l’interesse al ricorso, quali condizioni dell’azione, è necessario che il giudice accerti, anche d’ufficio, la sussistenza di entrambi, e non può affermarsi che il criterio della vicinitas, quale elemento di individuazione della legittimazione, valga, da solo ed in automatico, a dimostrare la sussistenza, altresì, dell’interesse al ricorso, che va inteso come specifico pregiudizio derivante dall’atto impugnato; b) l’interesse al ricorso, correlato allo specifico pregiudizio, derivante dall’intervento previsto dal titolo autorizzatorio edilizio, che si assume illegittimo, può, comunque, ricavarsi dall’insieme delle allegazioni racchiuse nel ricorso; c) l’interesse al ricorso è suscettibile di essere precisato e, comprovato, dal ricorrente, nel corso del processo, laddove, il pregiudizio fosse posto in dubbio dalle controparti ovvero, la questione rilevata d’ufficio dal giudicante, nel rispetto dell’art. 73, comma 3, c.p.a.; d) nelle cause in cui si lamenti l’illegittimità del titolo autorizzatorio edilizio per contrasto con le norme sulle distanze tra le costruzioni imposte da leggi, regolamenti o strumenti urbanistici, non solo la violazione della distanza legale con l’immobile confinante con quello del ricorrente, ma anche quella tra detto immobile e una terza costruzione può essere rilevante ai fini dell’accertamento dell’interesse al ricorso, tutte le volte in cui da tale violazione possa discendere, con l’annullamento del titolo edilizio, un effetto di ripristino, concretamente utile, per il ricorrente, e non meramente emulativo.
Posta l’ammissibilità del primo motivo del ricorso di primo grado, esso è stato analizzato, in virtù dell’effetto devolutivo dell’appello, stante la sua rituale riproposizione, da parte degli appellanti, ai sensi dell’art. 101 c.p.a.
Diversamente da quanto sostenuto dalla I.C.M.A. e dal Comune, l’effetto acquisitivo derivante dalla mancata ottemperanza all’ordine di demolizione, ritualmente notificato, deriva, direttamente, dal decorso del termine di legge, non essendo necessario uno specifico provvedimento amministrativo ablatorio e di acquisizione (cfr., ex aliis, Consiglio di Stato, sezione VII, sentenze 23 gennaio 2024, n. 729 e 16 febbraio 2023n. 1643; Consiglio di Stato, sezione IV, sentenza 21 maggio 2021, n. 6190 ).
Si tratta, infatti, di un effetto acquisitivo, a titolo originario, ope legis, e automatico, che rende, peraltro, superflua ogni motivazione sul punto, da parte dell’amministrazione.
Tale orientamento ha ottenuto l’avallo dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, che, con sentenza 11 ottobre 2023, n. 16, ha, tra l’altro, precisato che l’atto di acquisizione del bene, al patrimonio comunale, ha natura, meramente, dichiarativa, essendosi già perfezionato, ipso iure, l’acquisto del bene, identificato nell’ordinanza di demolizione, alla scadenza del termine di attuazione, di 90 giorni.
Appare interessante, nientemeno, ripercorrere il filo logico seguito dal ragionamento del Supremo Consesso di Giustizia Amministrativa, con la pronuncia – in Adunanza Plenaria – dell’11 ottobre 2023, n. 16.
L’Adunanza plenaria ha enunciato i seguenti principi di diritto: (a) la mancata ottemperanza all’ordine di demolizione, entro il termine da esso fissato, comporta la perduranza di una situazione, contra ius, e costituisce un illecito amministrativo omissivo propter rem, distinto dal precedente ‘primo’ illecito – avente anche rilevanza penale – commesso con la realizzazione delle opere abusive; (b) la mancata ottemperanza – anche da parte del nudo proprietario – alla ordinanza di demolizione, entro il termine previsto dall’art. 31, comma 3, del d.P.R. n. 380 del 2001, impone l’emanazione dell’atto di acquisizione del bene, al patrimonio comunale, tranne il caso in cui sia stata formulata l’istanza prevista dall’art. 36 del medesimo d.P.R. o sia stata dedotta e comprovata la non imputabilità dell’inottemperanza; (c) l’atto di acquisizione del bene al patrimonio comunale, emesso ai sensi dell’art. 31, comma 3, del d.P.R. n. 380 del 2001, ha natura dichiarativa e comporta – in base alle regole dell’obbligo propter rem – l’acquisto, ipso iure, del bene identificato nell’ordinanza di demolizione, alla scadenza del termine di 90 giorni, fissato con l’ordinanza di demolizione. Qualora per la prima volta sia con esso identificata l’area ulteriore acquisita, in aggiunta al manufatto abusivo, l’ordinanza ha natura parzialmente costitutiva in relazione solo a quest’ultima (comportando una fattispecie a formazione progressiva); (d) l’inottemperanza all’ordinanza di demolizione comporta la novazione oggettiva dell’obbligo del responsabile o del suo avente causa di ripristinare la legalità violata, poiché, a seguito dell’acquisto del bene da parte dell’Amministrazione, egli non può più demolire il manufatto abusivo e deve rimborsare all’Amministrazione le spese da essa sostenute per effettuare la demolizione d’ufficio, salva la possibilità che essa consenta anche in seguito che la demolizione venga posta in essere dal privato; (e) la sanzione pecuniaria prevista dall’art. 31, comma 4-bis, del d.P.R. n. 380 del 2001 non può essere irrogata nei confronti di chi – prima dell’entrata in vigore della legge n. 164 del 2014 – abbia già fatto decorrere inutilmente il termine di 90 giorni e sia risultato inottemperante all’ordine di demolizione, pur se tale inottemperanza sia stata accertata dopo la sua entrata in vigore.
L’Adunanza plenaria, sotto questo profilo, ha chiarito che rilevano i seguenti tre principi: 1) il principio di irretroattività, desumibile nella materia sanzionatoria dall’art. 1 della legge n. 689 del 1981, oltre che dall’articolo 11 delle disposizioni preliminari al codice civile; 2) il principio di certezza dei rapporti giuridici, perché chi non ha ottemperato all’ordine di demolizione, facendo decorrere il termine di 90 giorni prima dell’entrata in vigore della legge n. 164 del 2014, ha compiuto una omissione in un quadro normativo che prevedeva ‘unicamente’ la conseguenza della perdita della proprietà e non anche quella della irrogazione della sanzione pecuniaria; 3) il principio di tipicità ed il principio di coerenza, poiché col decorso del termine di 90 giorni il responsabile non può più demolire il manufatto abusivo, poiché non è più suo, sicché non è più perdurante l’illecito omissivo (in quanto si è ‘consumata’ la fattispecie acquisitiva), sicché l’applicazione dell’art. 31, comma 4-bis, anche alle ipotesi in cui il termine di 90 giorni era già decorso prima della sua entrata in vigore, comporterebbe l’applicazione di una sanzione per una omissione giuridicamente non più sussistente, essendo preclusa ogni modifica del bene in assenza di ulteriori determinazioni del Comune sulla gestione del bene divenuto ormai suo.
Alla luce di tali considerazioni, a parere dei Giudici del Consiglio di Stato, la deduzione del Comune secondo cui “le opere sanate col gravato provvedimento in alcun modohanno costituito oggetto delle ordinanze n. 8 del 26.5.2011 e n. 70 dell’11.11.2011, atteso che queste ultime sono state ampiamente ottemperate tempo addietro dalla medesima società controinteressata ” non sarebbe condivisibile, poiché sono stati ripristinati soltanto i manufatti sanzionati con l’ordinanza di demolizione n. 8/2011, mentre con i provvedimenti amministrativi censurati in sede di legittimità sarebbero stati legittimati interventi su un edificio totalmente abusivo (la palazzina uffici e servizi), totalmente da demolirsi.
È chiaro, infatti, che l’ente locale, nel vagliare l’istanza di accertamento di conformità, avrebbe dovuto verificare la legittima preesistenza, del sostrato edilizio, su cui impingono le nuove trasformazioni, che, tuttavia, nel caso di specie, va esclusa, atteso che il manufatto originario era oggetto di demolizione; ed è stato acquisito, automaticamente, al patrimonio dell’ente.
Tale circostanza, ovverosia che la palazzina servizi fosse da demolire, si evince univocamente dai seguenti fatti e circostanze (analizzati, peraltro, dettagliatamente, nei motivi dell’appello): (i) con la sentenza del T.a.r. per la Campania n. 2163/2016 è stato chiarito che la legittima condizione dell’immobile discende dalla concessione edilizia n. 26/1997, con la quale è stato ristrutturato l’intero complesso produttivo e ne è stata mutata la destinazione e che in detto titolo edilizio era prevista la demolizione; (ii) l’avvenuta presentazione di denunce d’inizio attività del 2002 e del 2003 aventi ad oggetto interventi di trasformazione non può in alcun modo determinare una qualsivoglia sanatoria o il riconoscimento della legittimità del manufatto, non trattandosi di provvedimenti amministrativi e non avendo tali denunce alcun effetto sanante sul sostrato edilizio su cui operano gli interventi da esse segnalati; (iii) successivamente alla presentazione di dette denunce, con i provvedimenti comunali prot. numeri 13464 del 29 marzo 2012, 15045 del 6 aprile 2012 e 40016 del 25 settembre 2012, i cui avversi ricorsi sono stati tutti respinti dal TAR Campania, l’amministrazione aveva espressamente reputato abusiva la palazzina siccome corrispondente ai “manufatti previsti da demolire nella C.E. n. 26/97 ”.
Ciò posto, dalla documentazione emerge che l’originario manufatto abusivo, oggetto dell’ordine di demolizione, è, senza dubbio, parte della successiva sanatoria, del 2018, in quanto tra le opere che ne formano oggetto vi sono: (i) il Corpo ‘A’ (palazzina servizi, ristrutturata e non demolita con la denuncia d’inizio attività prot. 58402del 20 dicembre 2002), (ii) il frazionamento con mutamento d'uso da ufficio a locale deposito con accesso indipendente, la diversa distribuzione degli ambienti (senza alterazione di superficie e di volume) del piano terra e del primo piano della palazzina servizi e la realizzazione in loco di un balcone aggettante.
In definitiva, la trasformazione di un manufatto già oggetto di demolizione, non ottemperata, con conseguente acquisizione automatica dell’area al patrimonio comunale, comporta l’illegittimità dell’accertamento in conformità di tali interventi modificativi, i quali, invero, non possono attrarre il sostrato abusivo, in una nuova dimensione di legalità postuma, né superare la già avvenuta acquisizione dell’area in capo al Comune, considerato, peraltro, che l’istanza di accertamento di conformità è stata presentata da un soggetto (la I.C.M.A. s.r.l.), privo di legittimazione, a seguito della suddetta acquisizione, ope legis, dell’immobile, in favore dell’ente locale.
Tale esito, derivante dall’accoglimento del primo motivo d’appello, stante la sua priorità logica e la sua valenza dirimente, nonché, la sua natura pienamente satisfattiva dell’interesse degli appellanti (ricorrenti in primo grado), tramite l’annullamento dell’atto impugnato, ha comportato, di conseguenza, l’assorbimento degli altri motivi di gravame, unitamente ad ogni altra questione ed eccezione.
Atteso che oggetto del giudizio era la domanda di annullamento dell’accertamento in conformità, il descritto quadro ha determinato la declaratoria di annullamento di detto provvedimento di sanatoria; mentre, al contrario, le vagliate questioni incidenter tantum, essendo questioni logicamente pregiudiziali, inerenti alla demolizione e all’acquisizione dell’area, non sono state rese oggetto di specifiche pronunce di merito.
In conclusione, l’appello è stato accolto e, pertanto, in riforma della gravata sentenza, è stato accolto il ricorso di primo grado; e, conseguentemente, annullato il provvedimento del Comune di Casalnuovo di Napoli, settore 3° pianificazione urbanistica e lavori pubblici, servizio urbanistica, n. 38 del 26 settembre 2018.
