Commento Consiglio di Stato sez. VI - 09:08:2024, n. 7079

Commento dell'Avv. Elena Berto
Con il ricorso introduttivo del primo grado di giudizio, un’Azienda agricola impugnava plurime cartelle di pagamento emesse dall’Agenzia delle Entrate (Riscossione sede di Bergamo).
Il TAR Brescia accoglieva – parzialmente – il ricorso, annullando talune cartelle di pagamento, respingendo l’impugnazione in relazione a tutte le altre.
AGEA, quindi, proponeva appello, per la riforma della sentenza, nella parte in cui disponeva l’annullamento di talune cartelle e correlate intimazioni di pagamento.
L’Azienda agricola, a sua volta, proponeva, avverso la medesima sentenza, autonomo appello, nella parte in cui tale decisione aveva, parzialmente, respinto il ricorso di primo grado.
Con il primo motivo, AGEA sosteneva l’erroneità della appellata sentenza per non aver considerato che i vizi dedotti avverso gli atti impugnati in realtà afferivano agli atti ad essi presupposti , per i quali risultava ormai decorso il termine di impugnazione.
Sostiene, invero, AGEA che, non essendo i ruoli presupposti stati tempestivamente impugnati, l’Azienda agricola non avrebbe potuto far valere l’illegittimità della cartella di pagamento, per i vizi esposti in ricorso, poiché, in realtà, essi inficiavano gli atti impositivi (gli atti di accertamento e i successivi ruoli). E non v’è chi non veda come l’impugnativa in esame abbia ad oggetto non l’atto di accertamento del prelievo supplementare – provvedimento tipicamente amministrativo – ma un atto, la cartella di pagamento, riguardante la fase esecutiva della riscossione del prelievo dovuto. Ebbene, gli atti inerenti a tale seconda fase (cartella esattoriale, intimazione di pagamento), pur devoluti alla giurisdizione esclusiva amministrativa ai sensi dell’art. 133 c.p.a., sono soggetti alle disposizioni, alle preclusioni ed ai principi regolanti la procedura esecutiva della riscossione mediante ruolo.
A diversa conclusione non potrebbe pervenirsi, secondo AGEA, sull’assunto che gli atti impositivi presupposti sarebbero applicativi di una normativa nazionale, nel frattempo, riconosciuta illegittima, dalla CGUE: si tratta di una impostazione distonica rispetto a principi consolidati enucleati dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato e della Corte di cassazione.
Ciò è vero e non altrimenti confutabile atteso che, contrariamente a quanto ritenuto dal TAR, il vizio di violazione del diritto U.E. non sarebbe sempre e in ogni tempo deducibile/rilevabile d’ufficio, non concretando esso una nullità; per converso, esso concreta un mero vizio di illegittimità, come tale non più rilevabile se non fatto, tempestivamente, valere, con rituale impugnazione (al pari del vizio da violazione di legge nazionale), e, comunque, non rilevabile; gravando solamente gli atti a valle.
La tesi fatta propria dal TAR, secondo cui la violazione del diritto dell’UE sarebbe “sempre rilevabile” con l’unico limite del giudicato (peraltro di merito), non sarebbe pertanto corretta in punto di diritto.
La giurisprudenza del Consiglio di Stato, si è, invero, già da tempo, consolidata nel senso di non ritenere possibile neppure la disapplicazione, per contrarietà alle norme europee, dell’atto di accertamento che non sia stato ritualmente impugnato dall’interessato, o la cui impugnazione sia stata respinta con sentenza passata in giudicato.
L’appellante, infine, rileva che neppure sarebbe corretto ragionare in termini di disapplicazione imposta dal diritto U.E., perché questa riguarda la disapplicazione di norme domestiche irrispettose di una norma euro-unitaria, direttamente applicabile, (id est: la disposizione di un regolamento UE).
Nel caso di specie, dunque, non sarebbe corretto discorrere di disapplicazione imposta dal diritto U.E., giacché la disapplicazione riguarderebbe le norme domestiche irrispettose di una norma unionale, direttamente applicabile, mentre, quivi, si è in presenza e si discute di provvedimenti in ipotesi violativi del diritto U.E.
Sicché la tesi sostenuta da AGEA è nel senso della erroneità della sentenza del TAR Brescia, per via della sussistenza di atti inoppugnabili, a monte, della cartella oggetto del giudizio; e, di riflesso, per via dell’erroneità della sentenza impugnata, in diritto, per avere il Tar ritenuto (implicitamente ma univocamente) che il (supposto) vizio di violazione del diritto dell’U.E. sarebbe sussumibile nella categoria della nullità, rilevabile ex officio in ogni tempo, e non invece nell’ambito del vizio di invalidità dell’annullabilità (che non può essere più fatta valere se non tempestivamente dedotta, entro il termine perentorio di 60 giorni, a mezzo di specifico motivo di impugnazione, avverso il provvedimento che è inficiato da tale vizio).
In definitiva, devesi rilevare come la cartella di pagamento costituisca, per sua naturale fisiologica, “un atto a valle” rispetto a diversi, ulteriori, “atti a monte”, che portano a conoscenza, del debitore, una pretesa creditoria dell’Amministrazione Pubblica. Sicché errato risulta essere l’invalidazione della cartella, sul rilievo che la stessa sarebbe in contrasto con il diritto dell’Unione, e, in particolare, perché la pretesa creditoria per come calcolata nella cartella sarebbe la concretizzazione di una normativa domestica irrispettosa del diritto dell’U.E. Ciò è vero e non altrimenti confutabile in quanto, per consolidata giurisprudenza, sia amministrativa sia civile, il provvedimento che viola il diritto U.E. non sarebbe nullo, ma semplicemente annullabile, per cui, se non tempestivamente impugnato, il provvedimento si consolida ed il vizio non può più essere fatto valere, atteso che doveva essere fatto valere contro gli atti “a monte”.
Lo stesso diritto U.E. si caratterizza per la previsione di termini decadenziali per far valere i vizi degli atti delle Istituzioni Europee, oltre che per il riconoscimento del principio di certezza del diritto.
Ben ha fatto, a tal riguardo, l’appellante a richiamare i precedenti della Corte di Giustizia1:
- “Santex” (in cui si è affermato che linea di principio e con taluni limiti il diritto U.E. non osta a normativa nazionale che fissi termini decadenziali per far valere inosservanze dello stesso);
- “Khune & Heitz” in cui si è affermato che il principio di certezza del diritto è tra i principi generali riconosciuti nel diritto UE;
- nonché la sentenza “Lucchini”, riguardante il c.d. “doppio limite processuale della equivalenza ed effettività”, secondo cui gli Stati membri sono liberi di regolare la disciplina processuale e la tutela delle situazioni giuridiche riconosciute dal diritto UE purché (i) non le trattino in modo sub-valente e peggiore di quanto fanno con corrispondenti situazioni giuridiche riconosciute da leggi nazionali, e (ii) la tutela sia comunque effettiva: da questo punto di vista l'appellante ha sostenuto che il termine di sessanta giorni per gravare un provvedimento non può ritenersi di ostacolo a una tutela effettiva della situazione giuridica soggettiva consegnata dal diritto UE.
In altri termini, fermo restando che il contrasto tra un provvedimento amministrativo nazionale e il diritto dell’Unione europea debba generare qualche forma d’invalidità dell’atto in questione, il Consiglio di Stato, almeno a far tempo dalla sentenza di questa Sezione 31 marzo 2011, n. 1983, ha affermato che l’atto amministrativo che viola il diritto dell’Unione europea è affetto da annullabilità per vizio di illegittimità sotto forma di violazione di legge e non da nullità, atteso che l’art. 21 septies della Legge 241 del 1990, ha codificato in numero chiuso le ipotesi di nullità del provvedimento amministrativo e tra queste ipotesi non rientra il contrasto con il diritto dell’Unione europea. Ne consegue che la nullità è configurabile nella sola ipotesi in cui il provvedimento amministrativo nazionale sia stato adottato sulla base di una norma interna attributiva del potere, incompatibile con il diritto europeo, e, quindi, disapplicabile, la cui ipotesi non ricorre nella fattispecie in esame. La violazione del diritto europeo da parte dell’atto amministrativo, quindi, implica un vizio di illegittimità con conseguente annullabilità dell’atto amministrativo con esso contrastante e da ciò discende un duplice ordine di conseguenze: sul piano processuale, l’onere dell’impugnazione del provvedimento contrastante con il diritto europeo davanti al giudice amministrativo entro il termine di decadenza di sessanta giorni, pena l’inoppugnabilità del provvedimento stesso; sul piano sostanziale, l’obbligo per l’amministrazione di dar corso all’applicazione dell’atto, fatto salvo l’esercizio del potere di autotutela. La natura autoritativa di un provvedimento amministrativo, infatti, non viene meno se la disposizione attributiva di potere è, poi, dichiarata incostituzionale o si manifesta in contrasto con il diritto europeo, a maggior ragione quando il contrasto con il diritto europeo non ha riguardato la disposizione attributiva del potere, ma una regola sui criteri da seguire per il legittimo esercizio del potere.
1 La giurisprudenza europea, nell’esercizio della sua funzione nomofilattica, ha posto ugualmente in rilievo che la certezza del diritto è inclusa tra i principi generali riconosciuti nel diritto comunitario, sicché il carattere definitivo di una decisione amministrativa, acquisito alla scadenza dei termini ragionevoli di ricorso in seguito all’esaurimento dei mezzi di tutela giurisdizionale, contribuisce a tale certezza e da ciò deriva che il diritto comunitario non esige che un organo amministrativo sia in linea di principio, obbligato a riesaminare una decisione amministrativa che ha acquisito tale carattere definitivo (cfr. sentenza Kuhne & Heitz del 13 gennaio 2004). Nello stesso senso, la giurisprudenza europea successiva ha evidenziato come, nel rispetto dei principi di equivalenza ed effettività, il principio della certezza nei rapporti giuridici non determina che gli stessi, una volta esauriti, debbano essere messi nuovamente e continuamente in discussione per effetto di una sentenza della Corte di Giustizia che sancisca la sostanziale incompatibilità di un determinato atto con la normativa europea. Sempre in analoga direzione, con riferimento a sentenze del giudice nazionale passate in giudicato le recenti sentenze della CGUE Randstad del 21 dicembre 2021 e Hoffmann-La Roche del 7 luglio 2022, nel riaffermare i principi di autonomia procedurale degli Stati membri e la necessità del rispetto dei principi di effettività ed equivalenza, non pongono in discussione che un atto amministrativo, come considerato da una sentenza del giudice nazionale passata in giudicato che sia poi accertata da una sentenza della Corte di Giustizia come violativa del diritto europeo, continui a spiegare i propri effetti, in disparte i possibili profili risarcitori.
