Cassazione penale sez. VI - 16:09:2024, n. 35869

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Sentenza

Commento dell'Avv. Elena Berto


La presente vicenda giudiziaria riguarda una pluralità di capi di imputazione, susseguitisi nel tempo, tra cui vi rientra, tra le altre, la commissione del “reato di evasione”.

L’art. 385 c.p., come noto, sanziona la condotta di (i) chi, essendo legalmente arrestato o detenuto per un reato, evada, ovvero (ii) dell’imputato che, essendo in stato di arresto nella propria abitazione o in altro luogo designato nel provvedimento, se ne allontani, nonché (iii) del condannato ammesso a lavorare fuori dello stabilimento penale.

Volendo procedere con l’analisi strutturale della fattispecie incriminatrice, il delitto in questione costituire un reato proprio, in quanto può essere commesso solo da coloro che versano nella condizione soggettiva indicata dalla norma.

Come noto, l’evasione, anche nell’ipotesi del c.d. “allontanamento dal luogo degli arresti domiciliari”, costituisce un reato a “dolo generico”, dove l’elemento soggettivo che deve sorreggere l’azione è limitato alla coscienza “dello stato di detenzione” (eventualmente, se del caso, anche presso l’abitazione), unitamente alla connessa volontà, purtuttavia, di allontanarsi dal luogo di prigionia senza legittima autorizzazione.

Il reato di evasione non è strutturato come una fattispecie di reato a “dolo specifico”, essendo sufficiente, per la sussistenza dell’elemento soggettivo, la consapevolezza e la volontà del reo di usufruire di una libertà di movimento vietata dal precetto penale, voluta, anche, unicamente, come fine a sé stessa. Non rilevano, quindi, i motivi della condotta dell’agente.

Ed altresì, l’art. 386 c.p., punendo, al comma 1, colui che procura o agevola l’evasione, di una persona legalmente arrestata o detenuta, prevede un delitto che può concretarsi in due distinte forme di attività: (i) la prima diretta allo svolgimento di un ruolo determinante, e di primo piano, nella preparazione immediata o nell’esecuzione dell’evasione; e (ii) la seconda intesa, invece, a favorire la fuga, predisponendo i mezzi opportuni o assicurando gli aiuti necessari allo scopo.

Poiché in entrambe le forme l’attività delittuosa deve essere finalizzata all’evasione della persona arrestata o detenuta, il delitto in questione consiste in un fatto di compartecipazione al reato di evasione di cui all’art. 385 c.p., che la legge ha incriminato autonomamente, con la previsione di una specifica figura di reato, allo scopo di punirlo più gravemente, almeno di norma, di quanto non avverrebbe con l’applicazione delle norme sul concorso di persone nel reato.

Ed altresì, integra il reato di procurata inosservanza di pena, giusta art. 390 cod. pen., l’aiuto prestato al condannato evaso, alla cui evasione l’agente non abbia concorso, a mantenersi in stato di latitanza.

Come noto, a livello procedurale, con riguardo all’applicazione delle “misure cautelari personali”, si afferma l’inammissibilità degli arresti domiciliari, per chi sia stato condannato per il reato di evasione, nei cinque anni precedenti.

In presenza di reati di evasione, e in assenza di fattori che ne mitighino la gravità, invero, non sussistono le condizioni per l’applicazione di misure alternative, meno afflittive, rispetto alla detenzione. Ciò rivela l’intenzione del legislatore di trattare con particolare severità gli indagati con precedenti di evasione, presupponendo un’inaffidabilità della persona, che rende inadeguate le misure alternative, salvo casi di lieve entità.

Questa interpretazione si inscrive, coerentemente, nella logica di specialità, e di sistematicità, delle norme che regolano le misure cautelari, riflettendo una chiara gerarchia normativa mirata alla tutela dell’ordine pubblico e la prevenzione di ulteriori trasgressioni (Cfr Cassazione penale sez. III, 31/01/2024, n.16460).

Giunti a questo punto della dissertazione, gioverà procedere con l’analisi della vicenda processuale che soggiace alla sentenza annotata.

Il Tribunale di Lecce, giudicando, ex art. 310 cpp, aveva confermato l’ordinanza con cui il G.I.P. aveva disposto la custodia cautelare, nei confronti dell’imputato, per spaccio di stupefacenti, nell’ambito di un procedimento definito in primo grado, previa riqualificazione del fatto in fattispecie di “lieve entità” (ex art. 73, commi 1 e 5 del D.P.R. n. 309 del 1990).

Avverso l’ordinanza ha presentato ricorso l’imputato, deducendo la violazione dell’art. 275, comma 2 bis cpp e il vizio di motivazione.

Il Giudice dell’Appello ha condiviso le posizioni del G.I.P., che aveva rigettato la richiesta di revoca della custodia cautelare.

Successivamente, si è ricorsi in Cassazione.

Il ricorso per cassazione è stato reputato infondato e, quindi, è stato rigettato.

Dall’esame dei fatti si evince, anzitutto, che l’imputato era stato tratto in arresto in quanto, benché sottoposto alla misura alternativa della detenzione domiciliare, si era accertato che nella sua abitazione svolgesse spaccio di cocaina.

Peraltro, nell’ordinanza impugnata, si trova precisato che il ‘mantenimento della misura carceraria’ si fondava su plurime ragioni, tra cui (i) l’assoluta inaffidabilità del prevenuto (dimostratosi incapace di rispettare le prescrizioni e il percorso connessi alla misura alternativa concessagli), (ii) la comprovata inadeguatezza di una misura di tipo domiciliare a prevenire l’elevato potenziale recidivante dell’imputato, nonché – dato cui si è attribuito un rilievo dirimente – (iii) l’operatività del divieto, stabilito nell’art. 284, comma 5 bis cpp, che preclude l’applicabilità degli arresti domiciliari a chi sia stato condannato per evasione, nei cinque anni precedenti, al fatto per cui si procede (l’imputato aveva riportato una condanna per evasione nel 2022)1.

Si era, inoltre, aggiunto, che, se è vero che tale norma prevede una “presunzione soltanto relativa” di inadeguatezza della misura domiciliare, superabile ove il giudice ravvisi la sussistenza di una duplice condizione (lieve entità del fatto e possibilità di soddisfare le esigenze cautelari con la misura domiciliare), tale duplice condizione è stata, però, soddisfatta dal G.I.P., il quale aveva guardato alle (i) modalità del fatto e alla (ii) personalità dell’imputato, oltretutto (iii) gravato da plurimi precedenti penali, e (iv) carichi pendenti; considerando comprovata l’inidoneità della misura domiciliare, dal momento che l’imputato in quel domicilio svolgeva indisturbato la sua attività di spaccio di droga pesante.

La Corte di Cassazione, nientemeno, perviene alla soluzione del caso, alla luce dei di seguito esposti assunti.

  • Il divieto previsto dalla norma processuale in esame ha un carattere assoluto, come ritenuto dalla giurisprudenza pressocché pacifica della Corte di Cassazione (tra le altre, Sez. 2, n. 14111 del 12/03/2015, Rondinone, Rv. 262960; Sez. 3, n. 6633 del 07/01/2014, Podda, Rv. 258902; Sez. 4, n. 31434 del 04/07/2013, Sanseverino Rv. 255954; mentre, rilievo meramente indiziante è attribuito alla condanna per evasione per il caso essa sia non ancora definitiva: Sez. 3, n. 8148 del 27/01/2012, Gambino, Rv. 252755)


  • Proprio in ragione di tale carattere assoluto, il divieto di concessione degli arresti domiciliari, al condannato, per evasione, prevale sulla disposizione di cui all’art. 275, comma 2-bis, cod. proc. pen, in virtù della quale la misura cautelare della custodia in carcere non può essere applicata quando il giudice ritiene che la pena irrogata non sarà superiore a tre anni (così Sez. 2, n. 14111 del 12/03/2015, Rondinone, Rv. 262960; di recente, Sez. 6, n. 34107 del 15/06/2023, Ulhaq, Rv. 285157, richiamata nel provvedimento impugnato)


L’unica questione residua sarebbe, allora, se la “inibizione” dell’operatività dell’art. 275, comma 2 bis cpp, da parte del divieto di cui all’art. 284, comma 5 bis cpp, valga, soltanto, quando il giudice ritenga, in base ad una valutazione ex ante, che all’esito del giudizio dovrà applicarsi una pena non superiore a tre anni (limite al di sotto del quale la prima disposizione preclude il ricorso alla cautela detentiva), oppure se tale preclusione operi parimenti quando il giudizio di merito si sia già concluso e la pena (in concreto) irrogata non abbia raggiunto la soglia legislativa, come avvenuto nel caso di specie, a seguito della derubricazione del reato di spaccio in ‘fatto lieve’.

Il Collegio non ravvisa ragioni per escludere, in quest’ultima tipologia di casi, la validità del pacifico orientamento giurisprudenziale, che reputa “speciale” la disposizione sul divieto (assoluto) di concessione di misura diversa da quella detentiva al condannato per evasione: in quanto tale, prevalente sull’art. 275, comma 2 bis cpp.

Infatti, la circostanza che sul piano della valutazione prognostica della gravità del fatto si sia passati a quello, meno incerto, della sua concreta (per quanto non definitiva) constatazione, non incide in alcun modo sul rapporto tra fattispecie processuali.

In conclusione, pertanto, viene affermato il principio di diritto per cui la presunzione relativa di inadeguatezza, degli arresti domiciliari, nei confronti del condannato per evasione, prevista dall’art. 284, comma 5 bis cpp, in quanto norma speciale, prevale sulla disposizione generale di cui all’art. 275, comma 2 bis secondo periodo cpp, non soltanto quando il giudice ritiene che la pena irrogata non sarà superiore a tre anni, ma anche quando una pena inferiore a tale limite è già stata concretamente irrogata nel corso del giudizio.

Al rigetto del ricorso è conseguita la condanna del ricorrente alle spese.


1 Tanto premesso, chiariscono i giudici di legittimità, anche a voler aderire all’assunto del Tribunale, secondo cui l’art. 284, comma 5 bis cpp dispone una “presunzione meramente relativa” in ordine all’inidoneità di misure cautelari diverse da quella detentiva, ove l’indagato sia stato condannato per evasione, deve rilevarsi, tuttavia, che, nel provvedimento impugnato, si dà ampiamente conto – con argomentazione compiuta e non affetta da vizi logici (come tale, non sindacabile in questa sede) – delle ragioni relative all’inaffidabilità del ricorrente.


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