Commento - Cassazione civile sez. lav. - 23:09:2024, n. 25442

Commento dell'Avv. Elena Berto
La presente vicenda riguarda la richiesta di risarcimento del danno da perdita di chance, dovuto al mancato conferimento di un incarico dirigenziale.
La chance, come ben si saprà, è una posizione giuridica, autonomamente tutelabile, morfologicamente intesa come “evento di danno”; rappresentato dalla perdita della possibilità di un “risultato favorevole,” purché ne sia prevista una “consistenza probabilistica adeguata”.
Non v’è chi non veda come, in quanto “situazione giuridica riconosciuta e protetta” dall’ordinamento, la sua lesione, ad opera dell’azione autoritativa dalla P.A., integri l’elemento del “danno contra ius”, che l’art. 2043 cc pone come presupposto ineludibile per il riconoscimento, in capo al danneggiato, di un diritto al risarcimento del pregiudizio patito, nella duplice forma, da un lato, (i) del ristoro per equivalente, e, dall’altro lato, (ii) in forma specifica, di cui all’art. 2058 cc.
Tuttavia, la tecnica risarcitoria de qua garantisce l’accesso al risarcimento per equivalente solo se la chance abbia, effettivamente, raggiunto un’apprezzabile consistenza, di solito indicata dalle formule “probabilità seria e concreta” o anche “elevata probabilità” di conseguire il bene della vita sperato; e, in caso di mera possibilità, vi è solo un ipotetico danno, non meritevole di reintegrazione, poiché, in pratica, nemmeno distinguibile dalla lesione di una mera aspettativa di fatto.
L’accoglimento della relativa domanda esige, pertanto, che sia stata fornita la prova, anche presuntiva, dell’esistenza di elementi oggettivi dai quali desumere, in termini di certezza o di elevata probabilità, ma non di mera potenzialità, l’esistenza di un pregiudizio economicamente valutabile.
La presente trattazione è, peraltro, arricchita – altresì – dall’operatività giuridica dell’art. 18 del D.Lgs. 165 del 2001.
Nel pubblico impiego privatizzato, invero, il conferimento di incarichi dirigenziali ha natura di “determinazione negoziale”, cui vanno applicati i criteri generali di ‘correttezza’, ‘buona fede’, ‘imparzialità’ e ‘buon andamento’ della P.A., ex art. 97 Cost., princìpi che obbligano l’ente datore di lavoro a valutazioni comparative e motivate, senza alcuna discrezione, né automatismo della scelta, cui corrisponde una posizione di interesse legittimo in capo agli aspiranti all’incarico.
Volendo venire all’analisi della vicenda processuale che – quivi – rileva, giovi precisare quanto segue.
La Corte d’Appello di Roma, in parziale accoglimento dell’appello proposto avverso la sentenza del Tribunale di primo grado (reiettiva delle originarie domande), segnatamente, (i) dichiarava l’illegittimità, per gli anni 2007 e 2010, dell’iter di conferimento dell’incarico dirigenziale relativo alla “Direzione Regionale Territorio e Urbanistica”, di cui alle deliberazioni della Giunta Regionale, n. 673/2007, e n. 341/2010, e, per l’effetto, (ii) condannava la Regione Lazio, al risarcimento del danno patrimoniale da perdita di chance; da ultimo, quanto all’ulteriore incarico dirigenziale, conferito con deliberazione n. 112/2013, (iii) rigettava la domanda.
La Corte capitolina, ricostruito il quadro normativo (art. 19 del D.Lgs. n. 165/2001; art. 20 della Legge Regionale Lazio n. 6 del 2002; art. 162 del Regolamento Regionale n. 1/2001), rilevava, anzitutto, in relazione ai capi di domanda accolti, che l’incarico dirigenziale fosse stato conferito con ‘formula di stile’ (‘presenta tutti i requisiti per l’ottimale svolgimento dell’incarico...’), senza previa comparazione, tra i vari candidati, e senza alcuna motivazione; donde la configurabilità del denunciato inadempimento.
Con riguardo alla pretesa risarcitoria, i Giudici di seconde cure calcolavano, in rapporto al numero dei partecipanti alle suddette due procedure, le probabilità del ricorrente di perdere le selezioni attraverso l’individuazione di un fattore (“delta”), utilizzato, poi, per quantificare, in via equitativa, il danno.
Al riguardo, si sottolineava che, in difetto di allegazioni in ordine a una “maggiore professionalità del candidato”, in raffronto con gli altri concorrenti, doveva presumersi che “tutti avessero le stesse probabilità di conseguire la nomina in menzione”; sicché, tenuto conto della maggiore retribuzione annua prevista per l’ambito incarico dirigenziale, rispetto a quella in godimento, nonché della durata biennale dello stesso, si procedeva alla determinazione del quantum debeatur; senza operare distinzioni di chance fra i vari concorrenti.
Relativamente al terzo incarico conferito, con deliberazione di Giunta Regionale n. 112/2013, la Corte d’Appello osservava, invece, che il ricorrente, nato il 20.5.1949, e andato in quiescenza nell’aprile 2014, non avrebbe potuto aspirare a ricoprire le funzioni, in quanto, da un lato, non avrebbe potuto garantire il periodo di durata quinquennale, e, dall’altro, non avrebbe potuto assicurare la durata minima biennale, prevista dall’art. 162 punto 9 del regolamento reg. cit.
Avverso tale sentenza, la Regione Lazio proponeva ricorso per cassazione, affidato a tre motivi; rispetto al quale controparte resisteva con controricorso.
La Corte di Cassazione ha accolto il secondo e il terzo motivo del ricorso principale; rigettato il primo, nonché il ricorso incidentale; con conseguente cassazione della sentenza impugnata, in relazione ai motivi accolti. Sicché, decidendo nel merito, non essendo necessari ulteriori accertamenti in fatto, giusta art. 384 cpc, la Cassazione ha respinto, integralmente, l’originaria domanda risarcitoria del lavoratore; compensando, tra le parti, le spese dell’intero giudizio.
Nel primo motivo del ricorso principale, la Regione denuncia violazione, falsa applicazione, ed erronea interpretazione, degli artt. 1175 e 1375 cc, nonché dell’art. 19 D.Lgs. 29 del 1993; dell’art. 20 Legge Regionale 6 del 2002 e dell’art. 162 del Regolamento n. 1 del 2002, in relazione all’art. 360, comma 1, n.3 cpc. La formula adottata per conferire l’incarico dirigenziale (“presenta tutti i requisiti richiesti per l’ottimale svolgimento dell’incarico, desunti dal titolo di studio, dalle specializzazioni, dall’esperienza professionale e dalla formazione manageriale”) non sarebbe risultata, affatto, vuota di contenuti, come ritenuto dal giudice d’appello, ma avrebbe rispecchiato, piuttosto, le indicazioni contenute nell’allegato H, punto 22; espressamente richiamato dall’art. 162 del regolamento reg. cit., che, previa valutazione dei curricula, escludeva l’obbligo di procedure di “comparazione formale fra i dirigenti”, connotando la scelta del candidato “più idoneo” (non “migliore”) in termini eminentemente fiduciari.
Il motivo non è stato ritenuto fondato.
E’ consolidato nella giurisprudenza il principio secondo cui “in tema di impiego pubblico privatizzato, nell’ambito del quale anche gli atti di conferimento di incarichi dirigenziali rivestono la natura di determinazioni negoziali assunte dall’amministrazione con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro, le norme contenute nell’art. 19, comma 1, del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165 obbligano l’Amministrazione datrice di lavoro al rispetto dei criteri di massima in esse indicati, anche per il tramite delle clausole generali di correttezza e buona fede (art. 1175 e 1375 cod. civ.), applicabili alla stregua dei principi di imparzialità e di buon andamento di cui all’art. 97 Cost. Tali norme (...) obbligano la P.A. a valutazioni comparative, all’adozione di adeguate forme di partecipazione ai processi decisionali e ad esternare le ragioni giustificatrici delle scelte; laddove, pertanto, l’Amministrazione non abbia fornito nessun elemento circa i criteri e le motivazioni seguiti nella selezione dei dirigenti ritenuti maggiormente idonei agli incarichi da conferire, è configurabile inadempimento contrattuale, suscettibile di produrre danno risarcibile” (Cass. 12.10.2010 n. 21088).
Siffatto principio, ad onore del vero, è piuttosto ricorrente nella giurisprudenza amministrativa.
In tema di pubblico impiego privatizzato, nelle trattative volte all’attribuzione di un incarico di funzione dirigenziale, il comportamento della P.A. non conforme ai criteri di correttezza e buona fede e ai principi, ex art. 97 Cost., in quanto idoneo a far sorgere, nell’interessato, un affidamento per l’attribuzione dell’incarico (anche accogliendo l’istanza di trattenimento in servizio per un biennio oltre l’età pensionabile), poi non assegnato, in assenza di adeguate forme di partecipazione dell’interessato medesimo, al processo decisionale, e senza l’esternazione delle ragioni giustificatrici della scelta (nella specie, non fornendo alcun elemento circa i criteri e le motivazioni che hanno indotto la P.A. a non conferire alcun incarico dirigenziale al lavoratore e, al contempo, ad attribuirne di analoghi ad altri dirigenti), “comporta il risarcimento del solo interesse legittimo privato avente ad oggetto la correttezza, l’imparzialità ed il buon andamento dell’amministrazione, e non anche del diritto al conferimento dell’incarico dirigenziale, insussistente in assenza del contratto stipulato con l’amministrazione” (Cfr Cassazione civile sez. lav., 23/09/2013, n.21700).
A parere dei giudici di legittimità, non vanno confusi, da un lato, (i) il diritto soggettivo al conferimento dell’incarico, e, dall’altro lato, (ii) l’interesse legittimo di diritto privato, correlato all’obbligo imposto alla pubblica amministrazione, di agire nel rispetto dei canoni generali di correttezza e buona fede; nonché dei principi di imparzialità, efficienza e buon andamento, consacrati nell’art. 97 Cost.
Sicché il dirigente non può pretendere, dal giudice, un intervento sostitutivo e chiedere l’attribuzione dell’incarico, ma può agire per il risarcimento del danno, ove il pregiudizio si correli all’inadempimento degli obblighi gravanti sull’amministrazione (Cass. 23.9.2013 n.21700; Cass. 14.4.2015 n. 7495; Cass. 24.9.2015 n. 18972).
Lo svolgimento di funzioni dirigenziali nel pubblico impiego, invero, integra una fattispecie complessa, che si articola nel conferimento dell’incarico, espressione del potere discrezionale di diritto privato dell’amministrazione; (Cass. 20 marzo 2004 n. 5659, in questa Rivista, 2004, I, 2471, con ampia nota di richiami, anche alle opinioni della dottrina; Cass. 22 dicembre 2004 n. 23760, ivi, 2005, I, 1391) nonché nella stipulazione del contratto, ormai destinato a regolare i soli profili economici del rapporto.
Sulla base di tale ricostruzione, devesi, quindi, escludere la possibilità di riconoscere un diritto soggettivo del dirigente pubblico, alla titolarità di incarichi dirigenziali, essendo il conferimento degli incarichi rimesso al potere organizzativo di ciascuna amministrazione, che nella discrezionalità riconosciutale deve tener conto della natura e delle caratteristiche dei programmi da realizzare, delle attitudini e della capacità professionale del singolo dirigente; in relazione alle valutazioni discrezionali riservate all’amministrazione in ordine alla predisposizione dell’organigramma aziendale, gli aspiranti vantano una “semplice aspettativa di fatto”; ed il diritto soggettivo non al posto, ma all’adempimento delle operazioni selettive nel rispetto delle disposizioni contrattuali e regolamentari, ovvero delle clausole generali di correttezza e buona fede.
Sono proprio la natura fiduciaria, la temporaneità e la contrattualità dell’incarico che escludono, in radice, la possibilità di ritenere sussistente un diritto del dirigente pubblico al conferimento degli incarichi.
Nella giurisprudenza amministrativa, anche, si è chiarito che la natura di rapporto fiduciario sottostante all’incarico dirigenziale, esclude la presenza di valutazioni comparative, in sede di scelta, nonché l’instaurazione di una procedura concorsuale, richiedendosi la sola motivazione sul possesso, in assoluto, dei requisiti professionali per l’espletamento delle funzioni.
Sul punto, la statuizione della sentenza impugnata, che ha correttamente disatteso la tesi, riproposta anche in sede di legittimità dalla Regione Lazio, della non necessità della valutazione comparativa e della assoluta discrezionalità della scelta operata, è conforme alla giurisprudenza di legittimità e, come tale, è esente da censure e va pienamente confermata.
Dovendosi armonizzare1 la peculiare disciplina dettata per i dirigenti pubblici con quella prevista dall’art. 2103 c.c., può affermarsi che: a) non esiste un diritto del dirigente pubblico a ricevere un incarico di direzione, ma una mera aspettativa in tal senso, estesa al rispetto dei criteri fissati dall’art. 19, comma l, d. lgs. n. 29 del 1993; b) esiste un diritto del dirigente, ove non ricorra la prima ipotesi, a vedersi assegnare un incarico dirigenziale c.d. “minore”, di ispezione, consulenza, studio o ricerca; c) sono fisiologici brevi periodi di inattività, in quanto giustificati dall’individuazione dell’incarico, dall’operatività del meccanismo della rotazione, dalla valutazione delle attitudini degli aspiranti, dai tempi di accettazione dei dirigenti più titolati.
Con il secondo mezzo del ricorso principale si denuncia violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2697 cc, degli artt. 115 e 116 cpc, in relazione all’art. 360, comma 1, n.3 cpc.
Il danneggiato si sarebbe visto riconosciuta una posta risarcitoria benché non avesse assolto all’onere della prova, su di lui gravante; ed, anzi, sarebbe emerso che non aveva maggiori probabilità di essere scelto degli altri concorrenti; in sostanza, sarebbe mancato, in capo al ricorrente, ad avviso della Regione, “un minimo livello di probabilità, indispensabile per poter rivendicare un danno da perdita di chance”.
Con la terza critica si lamenta l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, in relazione all’art. 360, n. 5, cod. proc. Civ.
Il giudice d’appello si sarebbe limitato a valutare il grado probabilistico, con riferimento alle posizioni dei candidati prescelti, senza considerare che c’erano altri concorrenti che “in possesso di maggiori requisiti” e sui quali quest’ultimo nulla avrebbe dedotto.
Il secondo e il terzo motivo del ricorso principale che, in quanto intimamente connessi, sul piano logico e giuridico, venivano congiuntamente analizzati, sono stati reputati e dichiarati fondati.
Quanto alla sussistenza ed alla liquidazione del danno, la Corte territoriale ha dichiarato, apertis verbis, che il dirigente “né nel ricorso introduttivo né in questa sede ha allegato alcunché sulla posizione degli altri concorrenti”; ed ha aggiunto che “tale omissione, sebbene non pregiudichi completamente il diritto al risarcimento, si riflette necessariamente sulla quantificazione del danno”.
Sicché si sarebbe dovuto presumere (sempre secondo la Corte capitolina) che tutti i concorrenti avessero le medesime possibilità di conseguire la nomina, essendo tutti in possesso dei medesimi requisiti richiesti. Facendo seguito a tali rilievi, il giudice d’appello, poiché nei due concorsi avevano partecipato 13 e 14 candidati, sarebbe passato, invero, a liquidare il danno “tenendo conto delle probabilità di perderli che erano rispettivamente 12/13 e di 13/14”.
Nelle argomentazioni della Corte territoriale si anniderebbe, nientemeno, un errore di diritto.
A fronte di una domanda di risarcimento del danno da perdita di chance, il giudice del merito è chiamato ad effettuare una valutazione che si svolge su due diversi piani, in quanto occorre, innanzitutto, che, (i) sulla base di elementi offerti dal lavoratore, venga ritenuta sussistente una concreta e non meramente ipotetica probabilità dell’esito positivo della selezione; (ii) e, solo qualora detto accertamento si concluda in termini positivi, vi potrà essere spazio per la valutazione equitativa del danno, da effettuare in relazione al canone probabilistico, riferito al risultato utile perseguito (Cfr Cass. n. 26694/2017).
Rispetto alla prova del nesso causale, tra comportamento illegittimo e danno risarcibile, per perdita di chance, la giurisprudenza è, evidentemente, attestata su parametri valutativi che richiedono l’apprezzamento del probabile trasformarsi della chance, in reale conseguimento del beneficio, in termini di “elevata probabilità, prossima alla certezza” (così, testualmente, Cass. 9 maggio 2018, n. 11165; conf. Cass. 12 maggio 2017, n. 11906; Cass. 30 settembre 2016, n. 19604; Cass. 11 maggio 2010, n. 11353; Cass. 19 febbraio 2009, n. 4052; v. altresì Cass. 1 marzo 2016, n. 4014, ove il danno è stato riconosciuto sul presupposto che fosse stimabile un novanta per cento di probabilità di promozione).
Come noto, il danno da perdita di chance può essere risarcito solo con specifico riguardo al grado di probabilità con cui, in concreto, il richiedente avrebbe potuto conseguire il bene della vita, e cioè in ragione della maggiore o minore probabilità, con conseguente necessità di distinguere fa probabilità di riuscita e, dunque, chance risarcibile; e mera possibilità di conseguire l’utilità sperata, da considerarsi chance non risarcibile. Il ricorrente ha l’onere di provare elementi atti a dimostrare, pur in modo presuntivo, la possibilità concreta che gli avrebbe avuto di conseguire il risultato sperato.
Tale impostazione devesi ribadire, in quanto è chiaro che una cosa è la determinazione di un nesso causale tra un comportamento e un danno certo (nel quale caso in ambito civilistico vale appunto la c.d. regola del “più probabile che non”: Cass., S. U., 11 gennaio 2008, n. 576); ed altro è stabilire i criteri di valutazione della rilevanza di un pregiudizio che, pur essendo cagionato, anch’esso, dal comportamento altrui, è, addirittura, incerto, nella sua reale verificazione, in senso giuridico, (ovverosia quale perdita di un’utilità che si avesse diritto ad avere), quale è il danno da perdita di chance. È, in definitiva, razionale che, proprio per l’incertezza rispetto alla spettanza dell’utilità, in ipotesi, menomata, la probabilità di verificazione di cui è necessaria la prova si collochi, come da giurisprudenza citata, verso i range più elevati della “scala probabilistica” (Cass. 9 marzo 2021 n. 6485 parla di “significati probabilità”).
La perdita di chance è da considerare come un’entità patrimoniale attuale, a sé stante, suscettibile, appunto, di valutazione economica e secondo un criterio, necessariamente, equitativo.
La perdita di chance, in altri termini, consistente nella privazione della possibilità di sviluppi o progressioni nell’attività lavorativa, costituisce un danno patrimoniale risarcibile, qualora sussista un pregiudizio certo (anche se non nel suo ammontare) consistente, non in un lucro cessante, bensì nel danno emergente da perdita di una possibilità attuale.
Ed effettivamente, la perdita di “chance”, consistente nella privazione della possibilità di sviluppi o progressioni nell’attività lavorativa, costituisce un danno patrimoniale risarcibile, qualora sussista un pregiudizio certo (anche se non nel suo ammontare) consistente non in un lucro cessante, bensì nel danno emergente da perdita di una possibilità attuale; ne consegue che la “chance” è anch’essa una entità patrimoniale giuridicamente ed economicamente valutabile, la cui perdita produce un danno attuale e risarcibile, qualora si accerti, anche utilizzando elementi presuntivi, la ragionevole probabilità della esistenza di detta “chance” intesa come attitudine attuale.
A detti principi non si sarebbe, affatto, attenuta la Corte territoriale; la quale, di contro, avrebbe commisurato il risarcimento al trattamento retributivo che il dirigente avrebbe percepito in caso di attribuzione dell’incarico tenendo però conto, tuttavia, di probabilità che erano, con accertamento di fatto, qui, insindacabile, “pari” per tutti i concorrenti alla selezione in parola.
A tali considerazioni è seguito, pertanto, l’accoglimento dei due motivi nei termini esposti.
È stato invece rigettato il primo motivo di ricorso principale, nonché il ricorso incidentale.
La sentenza impugnata, conseguentemente, è stata cassata e, non essendo necessari ulteriori accertamento di fatto, si è ritenuto di poter decidere il giudizio – in sede di legittimità – nel merito ex art. 384 cod. proc. civ. Sicché, alla reiezione dell’originaria domanda risarcitoria del lavoratore, è seguita l’affermazione e applicazione, in cassazione, del seguente principio di diritto: “il risarcimento del danno da c.d. perdita di ‘chance’ non segue, automaticamente, a una procedura concorsuale illegittima, ma va individuato nella sussistenza di elevate probabilità di esito vittorioso della selezione, la cui prova, anche presuntiva, non può essere integrata dall’esistenza di probabilità, tutte pari, tra i vari concorrenti, alla selezione, di conseguire il risultato atteso, occorrendo che si dimostri il nesso di causalità tra l’inadempimento datoriale e il suddetto danno in termini prossimi alla certezza”.
Emerge, all’evidenza, il parallelismo con le procedure concorsuali ad evidenza pubblica.
Al fine di ottenere il risarcimento del danno per perdita di chance, occorre che il danneggiato dimostri, anche in via presuntiva, ma pur sempre sulla base di circostanze di fatto certe e puntualmente allegate, la sussistenza di un valido nesso causale tra la condotta lesiva, consistente nella mancata aggiudicazione illegittima, e la ragionevole, concreta e verosimile possibilità del conseguimento dell’aggiudicazione di altri appalti e provi, conseguentemente, la sussistenza, in concreto, dei presupposti e delle condizioni del raggiungimento del risultato sperato ed impedito dalla condotta illegittima della p.a., della quale il danno risarcibile costituisce conseguenza immediata e diretta. Con riferimento ai predetti criteri, l’impresa – partecipante ad una gara ad evidenza pubblica – che chieda il risarcimento per perdita di chance deve documentare la perdita di concrete occasioni alternative di guadagno, non essendo sufficiente la semplice indizione di altre e diverse procedure selettive, né la richiesta o l’acquisto della documentazione di gara, né dichiarazioni di rinuncia alla partecipazione ad esse per generici impegni in precedenza assunti, in un periodo contestuale a quello in cui si è consumato l’illecito in questione.
1 Occorre, tuttavia, tenere in debita considerazione la circostanza per la quale, secondo altra parte della comunità degli interpreti, l’art. 19 d.lg. n. 29/1993, nel provvedere che il conferimento degli incarichi dirigenziali avvenga con atto motivato, che tenga conto dell’esperienza maturata dai dirigenti già in servizio e delle loro attitudini in relazione agli specifici incarichi da assegnare, comporta che, malgrado il carattere fiduciario del rapporto esistente tra la p.a. e gli stessi dirigenti, e nonostante la logica privatistica e manageriale che connota legislativamente la funzione di questi ultimi, vada esclusa una discrezionalità assoluta della prima nel conferimento degli incarichi medesimi. In altri termini, la motivazione richiesta dalla norma, innanzi citata, è essenziale proprio al fine di rappresentare, in una logica di trasparenza e buon andamento dell’amministrazione, l’interesse pubblico che, pur nell’evidenziata natura fiduciaria del rapporto d’impiego dirigenziale, deve, comunque, sottostare alla scelta degli incarichi da assegnare a ciascun dirigente. Ne discende che, qualora presso l’amministrazione siano presenti più dirigenti astrattamente in possesso di titoli idonei, è necessario che il provvedimento di nomina sia specificamente motivato con riguardo alla professionalità degli aspiranti, quale è desumibile dai titoli, in relazione agli aspetti specifici di professionalità ed esperienza richiesti per ciascun incarico da ricoprire ed agli obiettivi e programmi da realizzare, con esplicitazione delle valutazioni operate non soltanto in punto d’interesse pubblico all’avvicendamento nella funzione, ma anche in relazione agli altri elementi (oggettivi e soggettivi) individuati dal citato art. 19, e segnatamente alle attitudini e capacità professionali degli aspiranti, alle competenze tecniche ed esperienze maturate nel corso della carriera e così via.
