Commento - cassazione civile testamento

Commento dell'Avv. Elena Berto
La vicenda inerente alla fattispecie de qua muove dall’esigenza di sottoporre ad “esegesi e riflessione ermeneutica” la disposizione mortis causa, espressione, delle ultime volontà testamentarie, con cui il de cuius, invero, investiva i propri eredi del compito di accudirlo “vita natural durante”.
La peculiarità dell’ipotesi analizzata sembra potersi riscontrare, nientemeno, in forza della circostanza per la quale non fu possibile adempiere alla disposizione testamentaria, poc’anzi evocata, “per volere del disponente stesso”.
A onore del vero, fu lo stesso de cuius a non mettere i propri eredi nella condizione di accudirlo, negli ultimi anni della sua esistenza, come lui aveva – di contro – richiesto per testamento; rifiutandosi di trasferirsi nel luogo ove si era convenuto di condurlo per farlo beneficiare delle attenzioni, cure e premure desiderate.
Molteplici e complessi gli istituti giuridici, sotto le cui discipline, sarebbe possibile, in astratto, sussumere la disposizione testamentaria in questione: (i) un patto successorio (vietato dalla legge); (ii) un “onere testamentario”; (iii) una “condizione”; (iv) un “mero desiderio”, privo d’efficacia condizionante.
Per dare una risposta risolutiva alla questione ermeneutica resa oggetto di rappresentazione, converrà procedere, con ordine, riepilogando i fatti di causa, al fine di meglio comprendere la ratio decidendi dei giudici della Corte di Cassazione.
Con testamento olografo, del 2007, il de cuius aveva manifestato le sue ultime volontà mortis causa, nel senso di seguito disposto.
Segnatamente: “lascio tutto quanto in mio possesso del mio patrimonio (…) ai miei nipoti (…); e chiede loro che si impegnino ad accudirmi, vita natural durante, nel castello di mia proprietà, ubicato in (…)”.
L’adito Tribunale in primo grado, nel rigettare le domande principali e quelle riconvenzionali avverso siffatto lascito testamentario, escludeva che con il testamento fosse stato istituito un “patto successorio”, vietato dalla legge.
Come noto, in tema di patti successori, l’atto mortis causa, rilevante gli effetti di cui all’art. 458 c.c., è, esclusivamente, quello nel quale la “morte” incide, non già sul profilo effettuale, (ben potendo il decesso di uno dei contraenti fungere da termine o da condizione), ma sul piano causale, essendo diretto a disciplinare rapporti e situazioni che vengono a formarsi, in via originaria, con la morte del soggetto; o che dalla sua morte traggono, comunque, una loro autonoma qualificazione.
Sicché la morte deve incidere sia (i) sull’oggetto della disposizione (ii) sia sul soggetto che ne beneficia: in relazione al primo profilo l’attribuzione deve concernere l’id quod superest; mentre, in relazione al secondo, deve beneficiare un soggetto solo in quanto reputato ancora esistente al momento dell’apertura della successione.
Ed altresì, in tema di patti successori, per stabilire se una determinata pattuizione ricada sotto la comminatoria di nullità di cui all’art. 458 c.c. occorre accertare: “1) se il vincolo giuridico con essa creato abbia avuto la specifica finalità di costituire, modificare, trasmettere o estinguere diritti relativi a una successione non ancora aperta; 2) se la cosa o i diritti formanti oggetto della convenzione siano stati considerati dai contraenti come entità della futura successione o debbano, comunque, essere compresi nella stessa; 3) se il promittente abbia inteso provvedere, in tutto o in parte, della propria successione, privandosi, così dello ius poenitendi; 4) se l’acquirente abbia contrattato o stipulato come avente diritto alla successione stessa; 5) se il convenuto trasferimento, dal promittente al promissario, debba aver luogo, mortis causa, ossia a titolo di eredità o di legato. In particolare, l’art. 458 cc mira a salvaguardare il principio – di ordine pubblico – secondo cui la successione mortis causa può essere disciplinata, oltre che dalla legge, solo dal testamento (c.d. tipicità degli atti mortis causa) e a tutelare la libertà testamentaria fino alla morte del disponente. In considerazione della ratio del divieto sono – invece – sottratti all’ambito applicativo della norma i negozi in cui l’evento morte non è causa dell’attribuzione, ma viene a incidere, esclusivamente, sull’efficacia dell’atto, il cui scopo non è di regolare la futura successione” (Cfr Cassazione civile sez. II, 13/12/2023, n.34858).
L’adito Tribunale in primo grado, nel rigettare le domande principali e quelle riconvenzionali avverso siffatto lascito testamentario, escludeva, di poi, che il testamento fosse viziato da (i) errore, (ii) violenza o (iii) dolo.
Ben si saprà come, giusta art. 624 cc, il Codice Civile preveda che le disposizioni testamentarie possano essere impugnate da chiunque vi abbia interesse quando si accerti che le stesse siano frutto di errore, violenza o dolo.
La prova di un’attività captatoria della volontà del testatore può essere anche “presuntiva”, purché basata su fatti “certi” che consentano, nel loro complesso, sia di identificare e ricostruire, nella sua generica consistenza e nei suoi momenti essenziali, l’attività dolosa spiegata per trarre in inganno il testatore. Sicché devesi dimostrare che tale attività abbia, in realtà, influito sul processo formativo della volontà del de cuius.
La disposizione testamentaria, altresì, può dirsi “effetto di dolo”, allorché vi sia la prova dell’uso di mezzi fraudolenti che, avuto riguardo all’età, allo stato di salute, alle condizioni di spirito del testatore, siano stati idonei a trarlo in inganno, suscitando in lui false rappresentazioni ed orientando la sua volontà in un senso verso il quale non si sarebbe spontaneamente indirizzata. Di talché l’idoneità dei mezzi usati deve essere valutata con criteri di “variabili” nei casi in cui il testatore, affetto da malattie senili che causano debolezze decisionali ed affievolimenti della ‘consapevolezza affettiva’, sia più facilmente predisposto a subire l’influenza dei soggetti che lo accudiscono o con cui da ultimo trascorrono la maggior parte delle proprie giornate.
Per “violenza”, di poi, si intende la coercizione fisica ovvero psichica esercitata sulla volontà del testatore. Mentre, infine, per “errore”, si intende la falsa percezione del de cuius, in ordine alla rappresentazione della realtà, ingenerata da una mistificazione di “fatti”, “evenienze” e “circostanze”, tale da alterare la formazione del suo processo volitivo.
Quanto all’impegno per “l’accudimento vita natural durante”, i giudici di prime cure hanno sostenuto che si sarebbe trattato di un “mero desiderio”, privo d’efficacia condizionante.
Peraltro, siffatta conclusione non sarebbe mutata, pur ove lo si fosse considerato come un “onere”, trattandosi, piuttosto, di un adempimento, originariamente ‘possibile’; e, successivamente, divenuto ‘impossibile’, per decisione del testatore, il quale, in verità, aveva, categoricamente, rifiutato di trasferirsi nel paese natio, al fine di essere accudito dai nipoti.
La Corte d’appello di Trieste rigettava la promossa impugnazione, sia pure modificando e integrando la motivazione del giudice di primo grado.
Segnatamente, secondo i giudici di seconde cure, doveva escludersi trattarsi di “onere testamentario”, per la ragione decisiva che esso presuppone l’avvenuta “delazione”, nel mentre qui si trattava di prestare assistenza al testatore “in vita”.
Dalla valutazione del complessivo vaglio probatorio, pertanto, doveva escludersi che il testatore volle esprimere un “mero desiderio”, privo di rilevanza giuridica.
Trattavasi, piuttosto, di “condizione sospensiva”, tuttavia, divenuta “impossibile”, per successivo fermo volere dello stesso disponente, ma non considerabile, altresì, originariamente, tale.
Da qui la non applicabilità dell’art. 634, co. 2, cod. civ.
Conseguentemente, avrebbe dovuto trovare applicazione l’art. 1359 cod. civ., “riferibile anche ai comportamenti di chi, in concreto, abbia dimostrato, con una condotta successiva, di non avere più interesse al verificarsi della condizione (Cass. 24325/2011; Cass. 13457/2004), con la conseguenza che la condizione deve ritenersi adempiuta”.
Si proponeva, nientemeno, ricorso per cassazione, avverso la sentenza n. 626 del 2018, della Corte d’appello Di Trieste.
Con il primo motivo veniva denunciata violazione e falsa applicazione dell’art. 1362 cod. civ.
Assumono i ricorrenti che la Corte d’appello “avendo reputato (sia pure utilizzando il verbo “sembrare”) che i nipoti onerati si fossero assunti l’obbligazione di assistenza (alla quale solo per il sopravvenuto contrario volere dello zio non era stato possibile dare esecuzione) e che, comunque, anche diversamente opinando, l’avveramento della condizione non si era verificato per volere del testatore, si sarebbe violata la regola ermeneutica di cui all’art. 1362 c.c.”.
In particolare, si addebita alla decisione di non avere preso in considerazione alcuno dei criteri di cui all’anzidetta disposizione, tenendo conto delle circostanze fattuali rilevanti emergenti dagli atti.
Giovi tenere in debita considerazione, effettivamente, come, in materia testamentaria, secondo l’orientamento consolidato in giurisprudenza, ben può considerarsi applicabile – mutatis mutandis – l’art. 1362 cod. civ., così da evitare che la volontà del testatore venga prevaricata dall’interprete.
In altri termini, il contenuto letterale, salvo il caso in cui l’espressione non sia foriera di dubbio alcuno, deve confrontarsi con il comportamento tenuto dal testatore, successivamente, alla stesura della scheda.
In conclusione, seguendo gli indicati criteri, “in alcun modo si sarebbe potuti giungere ad affermare la soddisfazione del disponente con il solo e mero fatto dell’assunzione dell’obbligazione di assistenza, non seguita dall’effettiva prestazione: altro senso non poteva avere il prescritto ‘impegno ad accudire’”
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Sotto altro profilo, riguardante l’avveramento della condizione, “la corte di merito avrebbe omesso di esaminare l’altra (parte di clausola) immediatamente seguente, nella quale la richiesta dell’impegno (…) doveva avvenire nel luogo da lui indicato (Castel San Giorgio) e protrarsi (continuativamente e/o periodicamente) fino alla sua morte: tutti accadimenti che, dalla deposizione del teste Zuccini, non sono mai emersi”.
La censura è stata reputata inammissibile.
La ratio portante della decisione dei Giudici di legittimità è costituita dalla constatazione che non fu possibile adempiere alla condizione “per volere del disponente stesso”.
Di talché l’anzidetto accertamento ha reso vano disquisire sul contenuto della prestazione richiesta, ove l’effettivo adempimento, per vero, fu impedito dal volere di altro erede.
Con il secondo motivo veniva denunciata “l’errata applicazione” dell’art. 1359 cod. civ.
I ricorrenti sostengono che la norma evocata non fosse applicabile alla fattispecie in esame, trattandosi di evento “inoppugnabilmente possibile, futuro, ed incerto, alla data di redazione del testamento”.
La norma de qua prevede che la condizione apposta al contratto si considera avverata se sia mancata per causa imputabile alla parte che aveva interesse contrario all’avveramento: il mancato avveramento della condizione può consistere non solo in un comportamento commissivo della parte che si avvantaggerebbe dal mancato avveramento della condizione, ma anche in un suo comportamento omissivo, se la parte era tenuta ad un ‘facere’ in relazione alla possibilità di avveramento della condizione.
Peraltro, ai fini dell’operatività della fictio di avveramento della condizione, l’esistenza di un interesse contrario all’avveramento della condizione stessa non va valutata in termini astratti o facendo riferimento al solo momento della conclusione del contratto, ma valorizzando il dato dell’effettivo interesse delle parti all’epoca in cui si è verificato il fatto o comportamento che ha reso impossibile l’avveramento della condizione.
L’art. 1359 cod. civ., si soggiunge, è posto a tutela di posizioni giuridiche attive (l’aspettativa dell’altro contraente), situazione che qui non ricorreva affatto, stante che “il chiamato, obbligato ad adempiere la prestazione assistenziale in favore del testatore (…) non è titolare, fino alla morte del testatore, di alcuna aspettativa (…) giuridica”.
Diverso il caso in cui “la situazione di pendenza scaturente dalla condizione sospensiva sussista alla data di apertura della successione e consenta di individuare una vicenda riconducibile, per analogia od interpretazione estensiva, alla fattispecie prevista dall’art. 1359 c.c.”.
La censura è stata ritenuta meritevole di essere rigettata, sia pure con motivazione diversa rispetto a quella adottata dalla Corte di Trieste.
Il richiamo all’art. 1359 cod. civ. non è stato reputato condivisibile.
La previsione normativa anzidetta dispone che la condizione debba considerarsi avverata “qualora sia mancata per causa imputabile alla parte che aveva interesse contrario all’avveramento di essa”.
All’evidenza, essa regola i rapporti fra le parti di un contratto, così da impedire che la parte che resterebbe favorita dal non avveramento, si adoperi, ai danni dell’altra parte, perché ciò avvenga.
La natura di negozio giuridico unilaterale del testamento, evidentemente, rende impraticabile l’estensione della regola de qua.
Il codice civile, come noto, ha codificato la c.d. “regola sabiniana”, diretta a salvaguardare la volontà testamentaria.
L’art. 634 cod. civ., invero, pone una disciplina affatto diversa rispetto a quella prevista per i contratti dall’art. 1354 cod. civ., diretta a salvaguardare la volontà del disponente.
Volontà, questa, la quale deve soccombere nel solo caso preveduto dall’art. 626 cod. civ. (motivo illecito che è stato causa esclusiva della disposizione testamentaria).
L’art. 634 cod. civ. salvaguarda la volontà del testatore, considerando come non apposte “le condizioni impossibili e quelle contrarie a norme imperative, all’ordine pubblico o al buon costume”.
La condizione apposta al testamento, chiariscono – ancora una volta i giudici di legittimità – non rientra in alcuna delle anzidette categorie; e se ne distingue, nettamente, sotto altro profilo; posto che il mancato avveramento della condizione si è verificato per volere dello stesso disponente, il quale non ha voluto essere assistito, in vita, dai nominati nipoti. Trattasi, pertanto, di una condizione revocata per volontà dello stesso testatore.
È bene soggiungere che si è al di fuori del caso esaminato con la sentenza n. 5871/2002.
In quell’occasione, peraltro, con un non indifferente limitazione del “favor testamenti”, si reputò che se la condizione diviene impossibile in tempo successivo alla stesura del testamento si risolve in una condizione mancata e non più realizzabile, che non può essere equiparata, quanto agli effetti, all’impossibilità originaria (Sez. 2, n. 5871, 22/4/2002). Con la conseguente inefficacia della disposizione testamentaria, oltre e al di fuori del solo caso codicisticamente contemplato con l’art. 626 cod. civ.
Al di là della condivisibilità o meno della ricostruzione, è del tutto evidente che una tale conclusione poggia le basi sul presupposto che l’accadimento, che rende impossibile la condizione è, appunto, successivo alla morte del testatore e, quindi, fa presumere, che ove il testatore lo avesse previsto avrebbe disposto diversamente dei suoi beni.
Al contrario, si ribadisce, qui è stato proprio il testatore a impedire l’avveramento della condizione e, nonostante ciò, ha mantenuto ferma la nomina ad eredi universali dei nipoti.
Quindi, se appare improprio evocare la disciplina di cui all’art. 1359 cod. civ., per le ragioni sopra esposte, proprio il “favor testamenti” impone, comunque, la salvezza dell’istituzione testamentaria non revocata, nonostante la “revoca de facto”, per condotta incompatibile del disponente, della condizione sospensiva apposta.
In definitiva, appare opportuno enunciare il seguente principio di diritto: “ove il testatore, dopo avere apposto una condizione sospensiva, dipendente anche dalla sua volontà, alla disposizione testamentaria, ne impedisca l’avveramento, la disposizione testamentaria, ove non revocata, resta pienamente efficace”.
La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso, nel suo complesso; statuendo che il regolamento delle spese seguisse la soccombenza.
