Commento cassazione civile 25410 del 2024

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Sentenza

Commento dell'Avv. Elena Berto


Il giudizio trae origine dalla domanda dell’attore (vale a dire il committente), proposta innanzi al Tribunale di Prato, per la restituzione del corrispettivo pagato al convenuto (vale a dire l’appaltatore), pattuito per l’esecuzione della prestazione negoziale di fornitura e messa in opera di “piante ornamentali”.

Il committente, più nello specifico, chiedeva la restituzione del compenso pagato all’appaltatore, lamentando che il lavoro non fosse stato completato, atteso che alcune piante non erano attecchite.

A sua volta, l’appaltatore chiedeva, al Presidente del Tribunale di Prato, un decreto ingiuntivo, producendo le relative fatture, per ottenere il “saldo” del pagamento per i medesimi lavori.

Concesso il decreto ingiuntivo in favore dell’appaltatore, veniva proposta opposizione dal committente, sostenendo, anche in siffatto giudizio di cognizione, che le prestazioni non fossero state eseguite.

I procedimenti venivano riuniti, e, sulla base della C.T.U., il Tribunale adito accoglieva l’opposizione proposta, revocando il decreto ingiuntivo precedentemente disposto.

La Corte d’appello di Firenze, in parziale accoglimento del gravame innanzi a lei proposto, condannava l’appellato committente al pagamento, in favore dell’appellante appaltatore, di una somma a titolo di “saldo” per le prestazioni svolte.
La Corte d’appello, da un lato, (i) riconosceva la risoluzione del vincolo negoziale; e, dall’altro lato, (ii) constatava e dava atto circa la mancanza di chiarezza del contenuto delle obbligazioni contrattuali.

Sicché, disponevasi – in seconde cure – che, in difetto di prova di un “comportamento colpevole” dell’appaltatore, il committente avrebbe dovuto corrispondere il compenso, dovuto, per le opere eseguite.

È stato proposto ricorso per cassazione sulla base di sei motivi.

Con il primo motivo di ricorso, si deduceva la violazione e la falsa applicazione dell’art. 132 c.p.c., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., per apparenza della motivazione, dalla quale non si sarebbe potuto evincere l’iter logico della decisione. La Corte d’appello, pur partendo dalla premessa della mancanza di chiarezza del contenuto delle obbligazioni poste a carico delle parti, avrebbe condannato, ciononostante, il committente, al pagamento dell’intero prezzo, per le prestazioni eseguite dall’appaltatore, senza verificare l’esistenza di un comportamento colpevole a suo carico. La motivazione non avrebbe consentito, pertanto, di comprendere la fonte dell’obbligazione di pagamento posta a carico del committente.

Con il secondo motivo di ricorso, si denunciava la violazione e la falsa applicazione degli artt. 116 c.p.c. e 229 c.p.c. e 2735 c.c., in relazione all’art.360, comma 1, n. 3 c.p.c. Ed invero, contrariamente a quanto affermato dalla Corte d’appello, il contenuto delle obbligazioni dell’appaltatore si sarebbe potuto evincere dal ricorso per decreto ingiuntivo richiesto dall’appaltatore e dalle fatture allegate e pagate, mentre le fatture successive avrebbero riguardato mere maggiorazioni del prezzo.

Con il terzo motivo di ricorso, si deduceva la violazione e la falsa applicazione degli artt. 116 c.p.c., 2697 c.c., 1453 c.c., 1176 c.c., in relazione all’art.360, comma 1, n. 3 c.p.c. Nientemeno, la Corte d’appello avrebbe, apoditticamente, affermato l’assenza della prova del comportamento colpevole dell’appaltatore, per l’effetto, condannando il committente al pagamento dell’intera prestazione. La decisione sarebbe contraria al principio sull’onere della prova statuito dalle Sezioni Unite, con sentenza n. 13533/2001; in applicazione del quale, graverebbe, sull’appaltatore, l’onere della prova del corretto adempimento. Nel caso di specie, segnatamente, la ditta non avrebbe fornito la prova dell’adempimento della prestazione, né dell’impossibilità sopravvenuta della sua esecuzione.

Con il quarto motivo di ricorso, si censurava la sentenza impugnata per l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, con riferimento alle risultanze della C.T.U. Il ricorrente rilevava, a tal riguardo, che la C.T.U., giacché svolta dopo oltre dieci anni dai fatti, non avrebbe potuto consentire di accertare quali risultassero essere, con esattezza, le prestazioni svolte dall’appaltatore.

Con il quinto mezzo, si deduceva la violazione e la falsa applicazione dell’art.116 c.p.c., in relazione all’art.360, comma 1, n.3 c.p.c. Ciò in quanto, nientemeno, vi sarebbe stato un travisamento, ad opera della Corte d’appello, delle risultanze della C.T.U.

Il sesto motivo denunciava la violazione dell’art.132 c.p.c., in relazione all’art.360, comma 1, n. 4 c.p.c. La motivazione sarebbe risultata contraddittoria atteso che, a fronte di un adempimento parziale dell’appaltatore, sarebbe risultata illogica la condanna del committente al pagamento integrale della prestazione.

La Corte ha accolto il primo e il terzo motivo di ricorso e, per l’effetto, dichiarato assorbiti i restanti.

Di modo ché la sentenza impugnata è stata cassata, in relazione ai motivi accolti, con rinvio, anche per le spese del giudizio di legittimità, alla Corte d’appello di Firenze, in diversa composizione; affinché ella si attenesse, con rigore, al seguente principio di diritto: “l’appaltatore che agisca in giudizio per il pagamento del corrispettivo pattuito ha l’onere di provare di avere esattamente adempiuto la propria obbligazione, cioè di avere eseguito l’opera conformemente al contratto ed alle regole dell’arte, integrando tale adempimento il fatto costitutivo del diritto di credito oggetto della sua pretesa”.

Come anticipato, il primo e il terzo motivo, che per la loro connessione, sono stati esaminati congiuntamente, sono stati dichiarati fondati.

La Corte d’appello, con motivazione intrinsecamente contraddittoria, fonda l’esito conclusivo del suo ragionamento decisionale su assunti e postulati, a monte, del tutto dissonanti.

In altri termini appare evidente l’incongruenza, nella sequenza sillogistica-aristotelica, tra, da un lato, (i) la premessa maggiore, e, dall’altro lato, (ii) la premessa minore.

La “premessa maggiore” del discorso, in primo luogo, dovrebbe essere rinvenuta nella chiarezza e intellegibilità delle obbligazioni della regolamentazione negoziale, ai fini della valutazione della validità del vincolo.

La “premessa minore” del discorso dovrebbe riguardare, in secondo luogo, la possibilità di desumere dal testo contrattuale – giustappunto: chiaro ed intellegibile – l’insieme delle prestazioni reciproche dei paciscenti, da cui discendono i carichi e riparti di responsabilità, in cui si incorre in caso di inadempimento.

La conclusione del sillogismo logico-aristotelico che, nel caso di specie, si sarebbe dovuta adottare, è, segnatamente, la seguente: solo un testo negoziale chiaro ed intellegibile garantisce la possibilità di constatare quando le parti incorrono in inadempimenti negoziali, nonché quali sono le responsabilità alle quali vanno in contro, in caso di trasgressione delle regole negoziali.

Se così è (come è, in effetti, nel caso di specie) il ragionamento della Corte di Appello non può che essere considerato illogico, atteso che rispetto alla premessa postulata (id est: ‘la mancanza di chiarezza delle obbligazioni contrattuali’) sarebbe dovuta discendere una diversa conclusione (id est: ‘l’impossibilità di rinvenire le obbligazioni rimaste inadempiute’), rispetto a quella, invece, resa oggetto della determinazione dei giudici di seconde cure (id est: ‘l’individuazione delle prestazioni inadempiute’).

I giudici di seconde cure, in altri termini, pur avendo ritenuto che non fosse chiaro il contenuto delle obbligazioni contrattuali assunte dalle parti, hanno, ciononostante, affermato, che non vi fosse la prova del comportamento colpevole dell’appaltatore, condannando il committente, per l’effetto, al pagamento delle prestazioni eseguite dall’appaltatore.

Le conclusioni della Corte d’appello (in ordine al riparto dei carichi di responsabilità) non sono coerenti con l’affermazione dell’assenza di chiarezza delle prestazioni, atteso che – inconfutabilmente – solo dopo l’individuazione dell’obbligo contrattuale è possibile accertare se sussista, o meno, inadempimento.

Peraltro, le determinazioni dei giudici di seconde cure, si pongono in contrasto con il principio generale che governa il contratto con prestazioni corrispettive, secondo cui la parte che chiede, in giudizio, l’esecuzione della prestazione, a lui dovuta, non deve essere, a sua volta, inadempiente, ma deve offrire di eseguire la propria prestazione, se le prestazioni debbono essere eseguite contestualmente, ovvero deve dimostrare di avere esattamente adempiuto la propria obbligazione, se essa, come avviene per l’appaltatore, precede l’adempimento di pagamento del corrispettivo cui la controparte è tenuta.

Secondo l’insegnamento delle Sezioni Unite, il creditore che agisce in giudizio, sia per l’adempimento del contratto sia per la risoluzione ed il risarcimento del danno, deve fornire la prova della fonte negoziale o legale del suo diritto (ed eventualmente del termine di scadenza), limitandosi ad allegare l’inadempimento della controparte, su cui incombe l’onere della dimostrazione del fatto estintivo costituito dall’adempimento (Cass., Sez. Un., 30/10/2001 n.13533).
L’applicazione di tale principio al contratto di appalto – cui, per giurisprudenza costante, si estende la disciplina generale dell’inadempimento del contratto – comporta che l’appaltatore (che agisca in giudizio per il pagamento del corrispettivo convenuto) ha l’onere di provare di avere, esattamente, adempiuto la propria obbligazione, cioè di avere eseguito l’opera, conformemente, al contratto, nonché alle regole dell’arte, integrando tale adempimento il fatto costitutivo del diritto di credito oggetto della sua pretesa (Cass., Sez. II, 13/02/2008 n.3472).
Con l’effetto che la sua domanda non può essere accolta nel caso in cui l’altra parte contesti il suo adempimento, come avvenuto nel caso di specie, in cui il committente ha contestato che la prestazione non era stata integralmente eseguita e che alcune piante non erano attecchite.

A fronte di tale contestazione, la Corte d’appello avrebbe dovuto accertare se la prestazione dell’appaltatore fosse stata integralmente e correttamente eseguita e, solo in caso positivo, avrebbe potuto condannare il committente al pagamento del prezzo.

La Corte d’appello ha omesso di considerare l’eccezione di inadempimento dell’appaltatore, per inesattezza qualitativa e quantitativa della prestazione; ribaltando l’onere della prova; così, erroneamente, condannando il committente al pagamento del prezzo, senza accertare se la prestazione dell’appaltatore fosse stata adempiuta.

Non è pertinente, ai fini dell’obbligo di pagamento del corrispettivo da parte del committente, il richiamo all’art. 1181 c.c., secondo cui il creditore può rifiutare un adempimento parziale anche se la prestazione è divisibile; nel caso di specie, nessuna delle parti ha chiesto la risoluzione del contratto, sicché non è applicabile il principio statuito da Cass., Sez. II, 17/02/2010 n. 3786, in forza del quale, nel contratto d’appalto, il committente può rifiutare l’adempimento parziale oppure accettarlo e, anche se la parziale esecuzione del contratto sia tale da giustificarne la risoluzione, può trattenere la parte di manufatto realizzata, e provvedere, direttamente, al suo completamento, essendo, poi, legittimato a chiedere, in via giudiziale, che il prezzo sia, proporzionalmente, diminuito; nonché, in caso di colpa dell’appaltatore, anche il risarcimento del danno.


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