Commento Cassazione civile sez. II - 16:09:2024, n. 24749

Commento dell'Avv. Elena Berto
La Corte di Cassazione Civile, sez. II, 16/09/2024, n. 24749, con la sentenza commentata, si pronuncia sul tema della “rilevazione d’ufficio”, da parte del giudice, della “questione di nullità negoziale”, per violazione del divieto di patto commissorio, giusta art. 2744 cc.
Con domanda giudiziale – nel processo di primo grado – gli attori facevano valere l’invalidità di taluni atti negoziali aventi ad oggetto beni immobili; e, comunque, l’intervenuta usucapione di questi ultimi.
A fondamento della domanda esponevano che, con atto del 25 ottobre 1947, si era operata una “divisione”, del compendio dei beni pervenuti, loro, in via successoria, dai genitori. Sicché gli attori chiedevano che l’adito Tribunale volesse: “1) in via principale, annullare l’atto di vendita del 15 settembre 1957, in quanto concluso in conflitto d’interessi; 2) in via subordinata, accertare l’acquisto per usucapione dei beni immobili descritti in favore dei suoi eredi; il tutto con vittoria di spese di lite”.
Con comparsa di costituzione e risposta, di poi, si costituivano in giudizio i convenuti; i quali deducevano l’infondatezza delle avverse domande. Eccepivano, in particolare, di essere legittimi proprietari dei beni contesi per averli ereditati dalla madre. Evidenziavano, altresì, che gli atti di provenienza non fossero annullabili, anche perché la relativa azione dovevasi considerare, irrimediabilmente, prescritta, giusta art. 1442 c.c. Peraltro, anche la domanda di usucapione dovevasi considerare infondata.
Esponevano i convenuti, al contempo, che i fatti si fossero svolti, diversamente, da quanto prospettato dagli attori; poiché, come risultava dalla scrittura privata del 10 agosto 1950, era stato stipulato un prestito tra fratelli, con impegno alla restituzione, entro due anni, delle elargizioni patrimoniali conferite. Tale restituzione non era mai avvenuta, sicché, con missiva del 29 agosto 1957, era stata autorizzata – da parte del debitore – la vendita dei beni, in forza dei poteri rappresentativi, conferiti, con procura generale notarile, rogitata in data 6 agosto 1950, al fine di consentire il recupero della somma prestata.
Con la prima memoria, giusta art. 183, comma 6 cc, gli attori, unitamente alle domande già proposte nell’atto di citazione, formulavano una “nuova domanda”, consistente nella declaratoria di nullità degli atti di vendita, del 7 maggio 1954 e del 15 settembre 1957, nonché della procura ad amministrare e vendere, rilasciata, in data 6 agosto 1950. Di modo ché si invocava la nullità, per illiceità della causa, attesa la ‘natura’ e ‘funzione’ di garanzia dell’adempimento del credito, svolta dai negozi collegati de quibus, in spregio evidente del divieto di patto commissorio, giusta artt. 1418, 1343, 1344 e 2744 cc. Nella medesima memoria, gli attori chiedevano, altresì, l’annullamento per conflitto d’interessi, giusta art. 1394 cc, anche dell’atto di vendita del 7 maggio 1954, non menzionato nella citazione introduttiva.
I convenuti, di contro, con memoria proposta ai sensi dell’art. 183, comma 6, n. 2), cc, dichiaravano non accettarsi il contraddittorio sulle nuove domande, in quanto costituenti una vera e propria mutatio libelli, come tale inammissibile; diversamente, dall’emendatio libelli, ammessa, in talune circostanze e precise condizioni.
Sennonché, ammessi ed espletati gli interrogatori formali; disposta ed eseguita C.T.U. grafologica; espletata la prova testimoniale; ed acquisita la documentazione varia costituente il materiale probatorio del giudizio; la causa veniva, in definitiva, decisa, dal Tribunale di Salerno, con la sentenza n. 3393/2016, dell’11 luglio 2016.
Per mezzo del provvedimento di primo grado de quo – rigettate tutte le domande attoree, inclusa quella di accertamento dell’usucapione – era dichiarata, d’ufficio, la nullità, per violazione degli artt. 2744 e 1344 cc; vale a dire la nullità dell’atto notarile di vendita, del 15 settembre 1957, stipulato in forza di procura a vendere, nonché trascritto, nei pubblici registri immobiliari, il 24 ottobre 1957.
Avverso la suddetta pronuncia, i convenuti in primo grado proponevano appello, lamentando che il giudice di prime cure fosse incorso in errore, rilevando d’ufficio la questione di nullità soltanto, e, per la prima volta, con la sentenza; essendosi pronunciato sulla questione de qua senza averla sottoposta, preventivamente, al contraddittorio delle parti, giusta art. 101, comma 2 c.p.c.
Inoltre, per il caso in cui fosse stata confermata l’invalidità degli atti, gli appellanti domandavano che fosse accertata, in secondo grado, in ogni caso, l’usucapione, in proprio favore, dei cespiti oggetto di giudizio. Chiedevano, infine, riformarsi, altresì, le statuizioni in ordine al governo delle spese di lite, delle quali il Giudice di prime cure aveva pronunciato la compensazione, sull’insussistente presupposto della soccombenza reciproca.
La Corte d’Appello di Salerno rigettava l’impugnazione e condannava gli appellanti alle spese del grado1.
Avverso la sentenza d’appello si proponeva ricorso per cassazione.
Con il primo motivo2, le ricorrenti denunciavano, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4) cpc, la nullità della sentenza impugnata per violazione dell’art. 132, comma 1, n. 4) cpc.
Con il secondo motivo, le ricorrenti denunciavano, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3) cpc, la violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 cpc, nonché degli artt. 1362, 1344, 1418, 1710, 2744 cc.
Con il terzo motivo3, le ricorrenti denunciavano, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3) e n. 4) cpc, la nullità della sentenza e/o del procedimento, per violazione degli artt. 112, 183, 324, 342, 343, e 346 cpc.
Con il quarto (ed ultimo) motivo4, le ricorrenti denunciavano, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3) e n. 4) cpc, la violazione e falsa applicazione degli artt. 101, 102, 183, 342 cpc, nonché 24 e 111 Cost.
Tutte le censure sono state reputate infondate.
Sicché il ricorso per cassazione è stato respinto; con condanna delle ricorrenti al pagamento, in favore dei controricorrenti, delle spese del giudizio di legittimità.
Rispetto al tema del divieto di patto commissorio, un ruolo cruciale, invero, è giocato dal “secondo motivo di ricorso” per cassazione.
Gioverà la pena, pertanto, analizzarlo più nel dettaglio.
Segnatamente, i ricorrenti pongono, ad oggetto del secondo gravame, la critica alla sentenza del giudice di seconde cure, incentrata sull’assunto in forza del quale, nel caso di specie, non si rinverrebbe alcun patto commissorio.
Sebbene gli atti considerati (e, segnatamente, la procura a vendere del 6 agosto 1950, il prestito del 10 agosto 1950 e l’atto di trasferimento del 15 settembre 1957) potessero, astrattamente, dar luogo alla fattispecie vietata, giusta art. 2744 cc, nel caso di specie, non sarebbe revocabile in dubbio la mancanza degli elementi che la giurisprudenza di legittimità ritiene necessari a configurare l’invalidità negoziale per violazione della norma imperativa suddetta.
Non sussisterebbe, infatti, (i) l’elemento della contestualità tra procura a vendere e prestito, atteso che quest’ultimo, secondo la prospettazione delle ricorrenti, ha preceduto il rilascio di poteri rappresentativi.
Inoltre, evidenziano le ricorrenti, “alla vendita del bene le parti sono pervenute a seguito di precisa istruzione del debitore-rappresentato, contenuta nella missiva del 29.08.1957 per cui non può dirsi presente (ii) l’elemento della costrizione, tenuto, altresì, conto che il prestito ricevuto avrebbe dovuto essere restituito entro due anni dall’erogazione, mentre il compendio del germano. è stato alienato a cinque anni dalla scadenza del termine per il rimborso”.
Infine, nemmeno sussisterebbe una (iv) sproporzione tra quanto dato e quanto ricevuto, posto che il mandatario, sempre in assolvimento all’incarico assunto con la procura del 6 agosto 1950, si sarebbe limitato a tenere, per sé, le somme di stretta spettanza, amministrando, per conto del fratello emigrato, il residuo. Anche tale requisito, pure ritenuto necessario per configurare la violazione dell’art. 2744 cc, risulterebbe, quindi, insussistente.
Siffatta doglianza, secondo i giudici di legittimità, è stata considerata meritevole di rigetto; per la sua totale (i) inammissibilità ed (ii) infondatezza.
Ad essere del tutto inammissibile, effettivamente, sarebbe la stessa rubrica del secondo gravame, incentrata sul n. 3, comma 1, dell’art. 360 cpc.
Ed invero, “le espressioni violazione o falsa applicazione di legge,” descrivono i due momenti in cui si articola il giudizio di diritto: “a) quello concernente la ricerca e l’interpretazione della norma ritenuta regolatrice del caso concreto; b) quello afferente all’applicazione della norma stessa, una volta, correttamente, individuata ed interpretata”. Non rientra nell’ambito applicativo dell’art. 360, comma 1, n. 3, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa che è, invece, esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta perciò al sindacato di legittimità.” (Cass., Sez. 1, ordinanza n. 640 del 14 gennaio 2019, Rv. 652398-01; conf. Cass., Sez. 3, sentenza n. 7187 del 4 marzo 2022, Rv. 664394-01).
Orbene, non v’è chi non veda come l’art. 360, comma 1, n.3 cpc, poiché concentrato sull’accertamento delle circostanze di fatto valevoli ad integrare gli elementi idonei a dare luogo ad una violazione del divieto del patto commissorio, finirebbe con il risolversi nella prospettazione di una ricostruzione “alternativa” della “vicenda fattuale”; e, dunque, nella richiesta di una “nuova valutazione del compendio istruttorio”, notoriamente, preclusa, in sede di giudizio di legittimità (cfr., al riguardo, Cass., Sez. 2, ordinanza n. 10927 del 23 aprile 2024, Rv. 670888-01, secondo cui “in tema di ricorso per cassazione, deve ritenersi inammissibile il motivo di impugnazione con cui la parte ricorrente sostenga un’alternativa ricostruzione della vicenda fattuale, pur ove risultino allegati al ricorso gli atti processuali sui quali fonda la propria diversa interpretazione, essendo precluso nel giudizio di legittimità un vaglio che riporti a un nuovo apprezzamento del complesso istruttorio nel suo insieme.”).
Peraltro, la censura di cui al secondo motivo risulterebbe, in ogni caso, altresì, destituita di fondamento, giacché, come emerge dalla motivazione della sentenza impugnata, la corte distrettuale avrebbe, sebbene implicitamente, dato conto della “contestualità” tra la ‘procura’ ed il ‘mutuo’, posto che: 1) detti negozi risultavano stipulati in momenti temporali assai prossimi (6 agosto 1950 e 10 agosto 1950); 2) la scrittura privata del 10 agosto 1950 aveva contribuito a completare il contenuto della procura del 6 agosto 1950; 3) in tale scrittura privata si faceva espressa menzione del mutuo concesso in favore del fratello, che si impegnava a restituire la somma già ricevuta, entro il termine di due anni e a non revocare la procura stessa prima dell’adempimento di tale obbligazione restitutoria.
In tale ottica, la corte distrettuale avrebbe fatto, senz’altro, corretta applicazione del principio secondo cui “estendendosi il divieto di patto commissorio, ex art. 2744 cc, a qualsiasi negozio che venga utilizzato per conseguire il risultato concreto vietato dall’ordinamento, ne consegue che anche la procura a vendere un immobile, conferita dal mutuatario al mutuante contestualmente alla stipulazione del mutuo, è idonea a integrare la violazione della norma suddetta, qualora si accerti che tra il mutuo e la procura sussista un nesso funzionale. Tale valutazione è demandata al giudice di merito che, nel compierla, non deve limitarsi ad un esame formale degli atti posti in essere dalle parti, ma deve considerarne la causa in concreto e, in caso di operazione complessa, valutarli alla luce di un loro potenziale collegamento funzionale, apprezzando ogni circostanza di fatto rilevante e il risultato stesso che l’operazione negoziale era idonea a produrre e, in concreto, ha prodotto.” (Cass., Sez. 2, sentenza n. 22903 del 26 settembre 2018, Rv. 650377-01).
Ancora, diversamente da quanto opinato dalle ricorrenti, la corte distrettuale avrebbe, correttamente, valorizzato il dato rappresentato dalla circostanza secondo cui, alla vendita del bene, le parti sarebbero pervenute a seguito di precisa istruzione del debitore-rappresentato, contenuta nella missiva del 29 agosto 1957, giacché proprio da tale missiva potevasi desumere la volontà del debitore di permettere, al creditore, di procedere alla vendita, in forza della procura già a suo tempo rilasciata, al solo scopo di tacitazione dell’obbligazione restitutoria che era rimasta inadempiuta.
Anche sotto tale profilo, la pronuncia impugnata risulterebbe, nientemeno, in linea, con l’orientamento della Corte, secondo cui “in materia di patto commissorio, l’art. 2744 cc deve essere interpretato in maniera funzionale, sicché in forza della sua previsione risulta colpito da nullità non solo il patto ivi descritto, ma qualunque tipo di convenzione, quale ne sia il contenuto, che venga impiegato per conseguire il risultato concreto, vietato dall’ordinamento giuridico, dell’illecita coercizione del debitore a sottostare alla volontà del creditore, accettando preventivamente il trasferimento della proprietà di un suo bene quale conseguenza della mancata estinzione di un suo debito.” (Cass., Sez. 3, ordinanza n. 2469 del 25 gennaio 2024, Rv. 670068-01; conf. Cass., Sez. 2, sentenza n. 13210 del 14 maggio 2024, Rv. 671129-01).
Da ultimo, quanto all’affermazione delle ricorrenti circa l’insussistenza di una sproporzione tra quanto dato e quanto ricevuto, è stato sufficiente evidenziare – da parte dei giudici di legittimità – come essa risulti, specificamente, confutata, dalla motivazione della sentenza impugnata, nella quale, infatti, la corte territoriale avrebbe, espressamente, chiarito che, per effetto della vendita del 15 settembre 1957, a fronte dell’originario debito, tutti i beni di quest’ultimo fossero stati acquisiti al patrimonio familiare del fratello.
1 A sostegno dell’adottata pronuncia, la i giudici di seconde cure rilevavano: “a) che la domanda di nullità dell’atto di vendita del 15 settembre 1957 era stata proposta dagli attori mediante la memoria di precisazione o modificazione della domanda, giusta art. 183, comma 6, n. 1) cpc; b) che, dunque, tale domanda era stata introdotta dalle parti nella fase iniziale del processo, quando era possibile controdedurre ad essa nei termini di legge; c) che gli appellanti avevano concretamente replicato mediante la memoria del 23 giugno 2007, in cui era stata eccepita la tardività della domanda di nullità; d) che, quindi, da ciò emergeva come la pronuncia sulla nullità fosse stata emessa all’esito di un processo in cui, fin dalla fase iniziale, era stata ‘tematizzata’ la questione della nullità della procura e dell’atto di vendita concluso in base alla stessa; e) che la domanda di usucapione doveva essere considerata inammissibile, in quanto domanda nuova, non proponibile nell’ambito del giudizio d’appello, giusta art. 345, comm1 cpc; f) che, infatti, la procura del 6 agosto 1950, il mutuo del 10 agosto 1950 e la compravendita immobiliare del 15 settembre del 15 settembre 1957, erano tre negozi, intimamente, collegati, al fine di realizzare l’effetto di costituire la garanzia reale dei beni conferiti in amministrazione, nonché di prevedere che, in caso di inadempimento del mutuo, tali beni venissero trasferiti ad un fiduciario del creditore; g) che dunque tali negozi realizzavano proprio l’effetto che il legislatore vieta mediante la sanzione della nullità dell’atto di trasferimento dei beni, successivo all’inadempimento, ai sensi dell’art. 2744 cc; h) che con la procura del 6 agosto 1950 era stato conferito il potere di amministrare il beni del mandante e disporre di questi, con autorizzazione al procuratore a sostituirsi al rappresentato in tutti gli atti in essa menzionati; i) che, con la scrittura privata del 10 agosto 1950, in cui si parlava dell’imminente viaggio per l'Argentina e del prestito concesso dal fratello., era stato completato il contenuto della procura generale del 6 agosto 1950 alla quale si faceva esplicito riferimento; l) che, nella suddetta scrittura privata, vi era l’impegno a restituire il prestito entro due anni e a non revocare la procura fino a tale restituzione; m) che, sempre in tale scrittura privata, la quale non faceva menzione di alcuna richiesta di interessi, non era stato previsto alcun obbligo di rendiconto, fino al giorno dell’estinzione del debito, cosicché doveva ritenersi che gli interessi sulla somma mutuata fossero stati sostituiti dai frutti dei beni immobili; n) che, con la compravendita del 15 settembre 1957, sulla base della procura del 6 agosto 1950, venivano trasferito, alla a moglie, determinati beni; o) che gli eredi non avevano dimostrato l’avvenuta corresponsione del prezzo, avendo anzi assunto, fin dalla prospettazione difensiva, che il loro dante causa era stato autorizzato, con missiva del 29 agosto 1957, a vendere i beni per ripagarsi del prestito non restituito; p) tale autorizzazione si evinceva anche da lettera autografa che, però, non recava alcuna data, mentre quella del 29 agosto 1957 risultava apposta su una missiva di risposta; q) che, dopo l’alienazione dei beni corrispondenti al valore del prestito ricevuto, nel patrimonio sarebbe dovuti residuare altri beni; r) che, in definitiva, a causa dell’originario debito, tutti i beni erano stati acquisiti al patrimonio familiare; s) che nelle finalità dell’art. 2744 cc, rientra senz’altro anche quella di impedire che dall’inadempimento di un’obbligazione possa scaturire un aumento sproporzionato del debito”.
2 Con riguardo al primo motivo di ricorso per cassazione, -l’inammissibilità è stata pronunciata atteso che, a parere dei Giudici di Cassazione, il sindacato di legittimità sulla motivazione resta circoscritto alla sola verifica del rispetto del ‘minimo costituzionale’, richiesto dall’art. 111, comma 6 Cost., (e, nel processo civile, dall’art. 132, comma secondo, n. 4 cpc). La Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, ha chiarito che, dopo la riforma dell’art. 360, comma 1, n.5 cpc, disposta dall’art. 54 del D.L. n. 83 del 2012, conv., con modifica, dalla L. n. 134 del 2012, il sindacato sulla motivazione da parte della cassazione è consentito solo quando “l’anomalia motivazionale si tramuti in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione, in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali; in tale prospettiva, detta anomalia si esaurisce nella ‘mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico’, nella ‘motivazione apparente’, nel ‘contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili’ e nella ‘motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile’, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di ‘sufficienza’ della motivazione” (Cfr. Cass. S.U., n. 8053 del 2014; Cass. Sez. 1, ordinanza n. 7090 del 2022; Cass. Sez. 6-3, ordinanza n. 22598 del 2018). Nel caso di specie, secondo la Corte di Cassazione, la grave anomalia motivazionale paventata dai ricorrenti non esisterebbe, giacché la Corte d’Appello avrebbe, congruamente, motivato, in relazione alle ragioni per le quali ha ritenuto che l’operazione negoziale realizzata dalle parti, attraverso (i) la procura generale del 6 agosto 1950, (ii) il mutuo del 10 agosto 1950 e (iii) la compravendita immobiliare del 15 settembre 1957, avesse violato il divieto del patto commissorio, incorrendo nella sanzione della nullità, contemplata da tale disposizione normativa.
3 Con riferimento all'infondatezza del terzo motivo di ricorso, secondo i giudici di legittimità non si può fare a meno di considerare che, in realtà, il Tribunale di primo grado non ha accolto - in spregio del divieto di mutatio libelli - una domanda “tardiva” (che gli attori avrebbero formulato solo in sede di memoria 183, comma 6, n. 1 cpc); avendo il giudicante, piuttosto, rilevato d’ufficio, giusta art. 1421 cc, la questione di nullità del contratto per violazione del divieto di patto commissorio; non potendo ciò costituire violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato ex. art. 112 c.p.c. E non v'è chi non veda come costituisca, invero, ius receptum, l’ammissibilità della regola sopra evocata, in ordine ai poteri di rilevazione d'ufficio del giudice della nullità contrattuale (Cfr, ex multis, Cass., Sez. 2, sentenza n. 3308 del 5 febbraio 2019, Rv. 652439-01; conf. Cass., Sez. 3, ordinanza n. 39437 del 13 dicembre 2021, Rv. 663435-02; Cass., Sez. 3, ordinanza n. 1036 del 7 gennaio 2019, Rv. 652655-02; conf. Cass., Sez. 3, sentenza n. 2956 del 7 febbraio 2011, Rv. 616615-01).
4 Conclusivamente, con l’ultimo motivo di ricorso per cassazione, i ricorrenti deducono che il Tribunale avrebbe avuto l’obbligo di sottoporre, preventivamente, la questione di nullità, al contraddittorio delle parti, ai sensi dell'art. 101, comma 2 cpc. Tuttavia, occorre tenere in debita considerazione che la domanda di nullità della compravendita del 15 settembre 1957 e della procura del 6 agosto 1950 era stata introdotta, dagli attori, con la memoria ex art. 183, comma 6), n. 1), cpc, cosicché i convenuti - a onore del vero - erano stati posti nella condizione di controdedurre in ordine alla infondatezza nel merito tale questione. Se è, certamente, vero, infatti, che la declaratoria di nullità dell’operazione negoziale realizzata dalle parti, per violazione del divieto del patto commissorio, ai sensi dell'art. 2744 cc, è stata pronunciata d’ufficio dal giudice di prime cure, senza sollecitazione del contraddittorio, giusta art. 101, comma 2 cpc, risulta, nondimeno, altrettanto innegabile, come i convenuti fossero stati già posti in condizione di formulare le loro osservazioni, anche al fine di affrontare le questioni nel merito (con controdeduzione in sede di memoria ex art. 183 comma 6, n. 2 cpc). E non v’è chi non veda come ciò non sia avvenuto nel caso di specie.
