Cassazione civile sez. lav. - 01:08:2024, n. 21714

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Sentenza

Commento dell'Avv. Elena Berto


La presente vicenda si riferisce ad una fattispecie concreta di responsabilità civile (imputata, soggettivamente, alla P.A. datrice di lavoro) per dei pregiudizi subiti alla salute di una lavoratrice per via della sua esposizione agli agenti del “fumo passivo” negli ambienti di lavoro.

Segnatamente, oggetto di analisi è il tema dell’accertamento del nesso eziologico causale nell’ambito della responsabilità civile.

Come noto, mentre la responsabilità contrattuale si fonda sulla prova, da parte del danneggiato, (i) del proprio diritto, (ii) dell’esigibilità della prestazione, nonché (iii) della mancanza della stessa, laddove il debitore deve dimostrare di non aver potuto adempiere l’obbligazione per una causa a lui non imputabile; al contrario, in caso di responsabilità extracontrattuale, invece, è l’attore a dover dimostrare, non solo (i) i fatti costitutivi della sua pretesa, ma, altresì, la sussistenza del (ii) nesso causale.

Ciò implica che in presenza di un illecito civile il danneggiato deve dimostrare gli elementi costitutivi della condotta, del nesso di causalità, del danno ingiusto e della imputabilità soggettiva.

Il nesso di condizionamento giuridico tra l’evento e le conseguenze dannose risarcibili, in base ai criteri dell’art. 1223 c.c. (richiamato, dall’art. 2056 cc, in materia di responsabilità aquiliana), che limita la riparazione ai danni che siano “conseguenza immediata e diretta” dell’illecito, sussiste in base alla “teoria della c.d. causalità adeguata”, per la quale sono ristorabili i “danni conseguenza”, riconducibili all’illecito, secondo principi di “regolarità causale”, che fanno applicazione del criterio “dell’id quod plerumque accidit”; e, quindi, anche quelli mediati e indiretti che rientrano nella serie delle conseguenze normali ed ordinarie del fatto.

In tema di responsabilità civile – sia essa legata alle conseguenze dell’inadempimento di obbligazioni o di un fatto illecito aquiliano – la verifica del nesso causale tra la condotta omissiva e il fatto dannoso si sostanzia, invero, nell’accertamento della probabilità (positiva o negativa) del conseguimento del risultato idoneo ad evitare il rischio specifico di danno, riconosciuta alla condotta omessa, da compiersi, effettivamente, mediante un “giudizio contro-fattuale”, che pone al posto dell’omissione il comportamento dovuto.

E, nientemeno, siffatta indagine deve essere effettuato sulla scorta del criterio del “più probabile che non”, conformandosi a uno standard di certezza probabilistica, che, in materia civile, non può essere ancorato alla “c.d. probabilità quantitativa o pascaliana”, ma va verificato alla luce della “c.d. probabilità logica o baconiana”.

Sicché lo standard di c.d. certezza probabilistica, in materia civile, non può essere legato, esclusivamente, alla probabilità quantitativa della frequenza di un determinato evento, che potrebbe anche mancare o essere inconferente, ma va verificato, secondo la probabilità logica, nell’ambito degli elementi di conferma, e, nel contempo, nell’esclusione di quelli alternativi, disponibili in relazione al caso concreto.

È vero e non discusso, di poi, che ai fini dell’accertamento del nesso causale, non è sufficiente una relazione di prossimità cronologica tra la condotta e l’evento dannoso, in quanto il criterio “post hoc propter hoc” è errato, posto che: correlazione non significa causazione.

Venendo all’analisi della vicenda processuale, si prenda in considerazione quanto di seguito disposto.

Il Tribunale di primo grado accoglieva la domanda, proposta da una lavoratrice, per l’accertamento della violazione dell’obbligo datoriale di garantire il rispetto del divieto di fumo nei luoghi di lavoro.

Accertata, dunque, l’illegittima esposizione al “fumo passivo” della dipendente, i giudici di primo grado condannavano l’Amministrazione (datrice di lavoro) al risarcimento, da un lato, (i) del danno biologico temporaneo, in misura del 50%, per 93 giorni, nonché, dall’altro lato, (ii) del danno biologico permanente, nella percentuale del 25%, secondo la misura indicata dalle Tabelle di Milano.

La sentenza di primo grado, invero, veniva impugnata dalla P.A. datrice di lavoro; e, allo stesso tempo, la lavoratrice presentava appello incidentale.

La Corte d’Appello di Ancona, con la sentenza n. 227 del 2019, accoglieva l’appello principale proposto dalla Provincia di Ancona, nei confronti della lavoratrice appellata.

In riforma della sentenza resa tra le parti, peraltro, veniva rigettata la domanda proposta – con appello incidentale – dalla lavoratrice.

La Corte d’Appello ha affermato che non era stata raggiunta la prova del nesso causale tra, da un lato, (i) il lamentato danno alla salute, e, dall’altro lato (ii) la nocività dell’ambiente di lavoro.

Nella motivazione, i giudici di seconde cure richiamano la C.T.U. svolta in appello; rilevando che i primi sintomi patologici del “deficit ventilatorio ostruttivo”, a carico della lavoratrice, risalivano al dicembre 2007, prima, quindi, dell’esposizione al fumo passivo nell’ambiente di lavoro (verificatasi solo nel marzo 2008).

Inoltre, era emerso che il primo episodio di “riacutizzazione dell’asma” si era verificato in epoca anch’essa precedente al 2008, in un momento in cui la lavoratrice, effettivamente, ancora non risultava esposta al fumo passivo. Anche con riferimento alla “cefalea osmofobica” risultava diagnosticata, nientemeno, prima del 2008.

Conseguentemente, affermava la Corte d’Appello adita che le fasi di “insorgenza” e “riacutizzazione” delle patologie della lavoratrice si collocavano in epoca anteriore al marzo 2008, data di decorrenza della presa di servizio.

Peraltro, la storia clinica della paziente era caratterizzata da un insieme di specifici “fattori di rischio” (asma bronchiale, rinite cronica), che ben avrebbero potuto costituire la causa determinante (id est: “fattori causali alternativi”) dei fenomeni patologici insorti e riacutizzati a danno della salute della lavoratrice.

Ed altresì, i giudici di seconde cure: (i) rigettavano l’appello incidentale relativo al mancato riconoscimento del demansionamento, in quanto la lavoratrice non avrebbe allegato le mansioni stabilite a livello contrattuale e quelle a cui era stata – effettivamente – adibita; (ii) rigettava l’appello incidentale nella parte in cui chiedeva fosse riconosciuto un risarcimento per i pregiudizi derivanti dall’asserita scarsa pulizia dei locali, giacché non si dava prova delle oggettive ed effettive condizioni di “insalubrità” degli ambienti di lavoro; rigettava l’appello incidentale, per mancata prova dell’intento persecutorio dei denunciati comportamenti indicativi del mobbing; non essendovi neppure elementi per affermare che la lavoratrice fosse stata vittima di atteggiamenti sgradevoli, irrispettosi e discriminatori, né le richieste istruttorie orientavano in questo senso.

Per la cassazione della sentenza di appello ricorreva la lavoratrice prospettando quattro motivi di ricorso.

Resisteva la Provincia di Ancona con controricorso, assistito da memoria, con cui si riporta integralmente al controricorso.

La Corte ha accolto il ricorso; cassando la sentenza impugnata; e, in relazione all’accoglimento, ha rinviato, anche per le spese del giudizio di legittimità, alla Corte d’Appello di Ancona, in diversa composizione.

Con il primo motivo di ricorso, è prospettata la violazione e falsa applicazione degli artt. 2043 e 1227 cc, in forza dell’art. 360, comma 1, n.3 cpc, con riguardo alla violazione delle regole che disciplinano l’accertamento del “nesso causale” nel giudizio civile.

Assume la ricorrente che il nesso eziologico sussisterebbe ogni qual volta, alla stregua di una valutazione ex post, una determinata condotta umana possa essere considerata “condizione” del verificarsi dell’evento, anche, se del caso, congiuntamente, ad “altri fattori”.

Con il secondo motivo di ricorso è dedotto il vizio di omesso esame circa un fatto decisivo che è stato oggetto di discussione tra le parti, in forza dell’art. 360, 5 cpc. Ribadisce, a tal proposito, la ricorrente, che le patologie – ai danni della sua salute – si sarebbero manifestate in epoca successiva all’assunzione presso i luoghi di lavoro della Provincia di Ancona.

Con il terzo motivo di ricorso è dedotto il vizio di omesso esame circa un fatto decisivo che è stato oggetto di discussione tra le parti, in forza dell’art. 360, n.5 cpc. A tal riguardo, viene riscontrata dalla lavoratrice la circostanza del raggiungimento della prova dell’insalubrità dei luoghi di lavoro.

Con il quarto motivo di ricorso è dedotta la violazione e falsa applicazione degli artt. 61, 115, 116, 132 e 196 cpc, in forza dell’art. 360, n. 3 cpc. Tale motivo viene incentrato sull’analisi ricognitiva delle violazioni, perpetrate dal giudice di primo grado, delle norme che regolano la formazione della prova nel giudizio civile.

La Corte d’Appello, più nello specifico, avrebbe accolto – acriticamente e senza indicazione delle precipue ragioni – la C.T.U. di secondo grado, sfavorevole alla lavoratrice, disattendendo, di contro, l’esito favorevole della C.T.U. di primo grado.

I motivi di ricorso sono stati esaminati congiuntamente in ragione della loro connessione.

Gli stessi sono stati reputati fondati e, pertanto, accolti.


A fondamento della decisione dei giudici di legittimità viene richiamata la consolidata giurisprudenza (Cfr n. 25884 del 2022), in tema di accertamento del nesso causale nella responsabilità civile, in ossequio alla quale: “qualora l’evento dannoso sia ipoteticamente riconducibile a una pluralità di cause, si devono applicare i criteri della ‘probabilità prevalente’ e del ‘più probabile che non’; pertanto, il giudice di merito è tenuto, dapprima, a eliminare, dal novero delle ipotesi valutabili, quelle meno probabili (senza che rilevi il numero delle possibili ipotesi alternative concretamente identificabili, attesa l’impredicabilità di un’aritmetica dei valori probatori), poi ad analizzare le rimanenti ipotesi ritenute più probabili e, infine, a scegliere tra esse quella che abbia ricevuto, secondo un ragionamento di tipo inferenziale, il maggior grado di conferma dagli elementi di fatto aventi la consistenza di indizi, assumendo così la veste di probabilità prevalente”.

Sicché la decisione impugnata, quanto agli effetti dell’esposizione al fumo passivo, la cui effettività non è stata esclusa dalla Corte d’Appello, non risulterebbe adottata in conformità ai principi che regolano l’accertamento del nesso causale, a fronte di domanda risarcitoria in tema di responsabilità civile aquiliana, secondo i quali il nesso causale materiale è regolato dalla disciplina di cui agli artt. 40, 41 c.p.; secondo cui un evento è da considerare causato da un altro se il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo.

Quanto al nesso casuale materiale, v’è da dire come la giurisprudenza ha, in più occasioni, affermato che “ai fini della sussistenza del nesso di causalità tra la condotta dell’Amministrazione e l’evento dannoso, si deve muovere dall’applicazione dei principi penalistici, di cui agli artt. 40 e 41 c.p., in forza dei quali un evento è da considerare causato da un altro se, ferme restando le altre condizioni, il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo (c.d. teoria della conditio sine qua non). Il rigore del principio dell’equivalenza delle cause, posto dall’art. 41 c.p., in base al quale, se la produzione di un evento dannoso è riferibile a più azioni od omissioni, deve riconoscersi ad ognuna di esse efficienza causale, trova il suo temperamento nel principio di causalità efficiente, desumibile dall’art. 41 comma 2 cp, in base al quale l’evento dannoso deve essere attribuito esclusivamente all’autore della condotta sopravvenuta, solo se questa condotta risulti tale da rendere irrilevanti le altre cause preesistenti, ponendosi al di fuori delle normali linee di sviluppo della serie causale già in atto”. (Cfr Consiglio di Stato, VI, 19 gennaio 2023, n. 674).

Ed altresì, ad essere criticata è la mancata adesione – da parte dei giudici di secondo grado – al criterio della cosiddetta “causalità adeguata”, sulla base del quale, all’interno della serie causale, occorre dar rilievo solo a quegli eventi che non appaiano – ad una valutazione ‘ex ante’ – del tutto inverosimili, con la precisazione che, nell’accertamento del nesso causale in materia civile, vige la regola della “preponderanza dell’evidenza” o del ‘più probabile che non’, mentre, nel processo penale, vige la regola della prova ‘oltre il ragionevole dubbio’ (Cfr Cass. S.U. n. 576 del 2008).

Il nesso eziologico (nella forma della c.d. causalità materiale), unitamente al criterio della c.d. “causalità adeguata”, invero, costituiscono i baluardi giuridici nell’ambito della tematica dell’accertamento della responsabilità civile. Si legge, in proposito, come: “in tema di responsabilità civile, una volta che il danneggiato abbia dimostrato l’evento lesivo, un ruolo essenziale è rappresentato dal nesso di causalità: infatti per far sorgere in capo al danneggiante l’obbligo del risarcimento del danno è necessario che quest’ultimo sia eziologicamente riconducibile al fatto illecito, ovvero che sussista un rapporto di causa-effetto tale che l’evento dannoso possa dirsi provocato dal fatto compiuto. E nell’accertamento del nesso di causalità si può far ricorso al principio di cui agli artt. 40 e 41 c.p., in base al quale un evento è da considerare causato da un altro se il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo, nonché dal criterio della c.d. ‘causalità adeguata’, in virtù del quale in presenza di una serie causale occorre dare rilievo solo a quegli eventi che non appaiano del tutto inverosimili.” (Cfr Tribunale Alessandria sez. I, 21/08/2023, n.715).

Testualmente, in termini, si è precisato che: “in tema di illecito aquiliano perché rilevi il nesso di causalità tra una condotta e l’evento lesivo deve ricorrere, secondo la combinazione dei principi della ‘condicio sine qua non’ e della causalità efficiente, la duplice condizione che si tratti di una condotta antecedente necessaria dell’evento e che la stessa non sia poi neutralizzata dalla sopravvenienza di un fatto di per sé idoneo a determinare l’evento stesso” (Cfr Cass. n. 18584 del 2021; Cass. 23197 del 2018).

Ad onore del vero, non sembra potersi fare a meno di rilevare che: “lo standard di c.d. certezza probabilistica in materia civile non può essere ancorata esclusivamente alla c.d. probabilità quantitativa della frequenza di un evento, che potrebbe anche mancare o essere inconferente, ma va verificato, secondo la cd. probabilità logica, nell’ambito degli elementi di conferma, e, allo stesso tempo, nell’esclusione di quelli alternativi, disponibili in relazione al caso concreto” (Cass., n. 47 del 2017).

Ed ancora, non sarebbe stato – sufficientemente – preso in esame il c.d. “giudizio controfattuale”, necessario per decretare la sussistenza del nesso causale tra l’evento di danno e la condotta omissiva.

In termini, più che conferenti risultano essere le parole della giurisprudenza (Cfr Cassazione civile sez. III, 14/03/2022, n.8114), a mente delle quali: “in tema di responsabilità civile (sia essa legata alle conseguenze dell’inadempimento di obbligazioni o di un fatto illecito aquiliano), la verifica del nesso causale tra la condotta omissiva e il fatto dannoso si sostanzia nell’accertamento della probabilità (positiva o negativa) del conseguimento del risultato idoneo ad evitare il rischio specifico di danno, riconosciuta alla condotta omessa, da compiersi mediante un giudizio contro fattuale, che pone al posto dell’omissione il comportamento dovuto. Tale giudizio deve essere effettuato sulla scorta del criterio del ‘più probabile che non’, conformandosi a uno standard di certezza probabilistica, che, in materia civile, non può essere ancorato alla determinazione quantitativa-statistica delle frequenze di classi di eventi (c. d. probabilità quantitativa o pascaliana), la quale potrebbe anche mancare o essere inconferente, ma va verificato riconducendone il grado di fondatezza all’ambito degli elementi di conferma (e, nel contempo, di esclusione di altri possibili alternativi) disponibili nel caso concreto (c.d. probabilità logica o baconiana)”.

Secondo i giudici di legittimità, la Corte di Appello si sarebbe limitata a dare rilievo ai primi episodi patologici di (i) “insorgenza dei deficit ventilatorio ostruttivo”, nonché della riacutizzazione (ii) “dell’asma”, e (iii) della “cefalea osmofobica”, collocandoli prima dell’evento dell’assunzione in servizio.

Tuttavia, i giudici di seconde cure non avrebbero illustrato le ragioni per cui il fattore causale dell’esposizione al fumo passivo, nel periodo in cui la ricorrente prestava servizio presso la Provincia di Ancona, non avrebbe concorso a far persistere o aggravare tali patologie, in ragione dei criteri, sopra richiamati, che regolano l’accertamento del nesso causale.


Peraltro, la Corte d’Appello avrebbe – altresì – omesso di considerato che, a partire dall’art. 51 della Legge n.3 del 2003 (emanato anche in conformità con la sentenza della Corte Costituzionale n. 399 del 1996), negli ambienti di lavoro è vietato fumare e il datore di lavoro è responsabile del rispetto del divieto (la cui infrazione può essere sanzionata disciplinarmente); divieto, questo, finalizzato a garantire la salubrità dei luoghi di lavoro e a proteggere – in via di prevenzione – la salute di tutti i lavoratori, dall’esposizione agli agenti del fumo passivo, il cui carattere, potenzialmente dannoso, per la salute, è scientificamente accertato, per tutti, e, quindi, in modo ancora più incisivo, nei confronti delle persone propense a malattie respiratorie.

Nella specie, risulta pacifico il mancato rispetto del suddetto divieto; e non risulta che la Provincia abbia adottato alcun provvedimento al riguardo, a tutela della ricorrente e di tutti i dipendenti.

Il ricorso, pertanto, è stato accolto per quanto di ragione.

La sentenza di appello è stata cassata con rinvio alla Corte d’Appello di Ancona, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità, che nel decidere la controversia si atterrà ai suddetti principi di diritto.

D’altronde, anche nella giurisprudenza amministrativa, è consolidata la regola a mente della quale: la verifica del nesso causale tra la “condotta omissiva” del datore di lavoro ed il “fatto dannoso” deve essere condotta sulla scorta del criterio del “più probabile che non”.
Segnatamente, si legge come: “in tema di responsabilità civile, sia essa legata alle conseguenze dell’inadempimento di obbligazioni o di un fatto illecito aquiliano, la verifica del nesso causale tra la condotta omissiva e il fatto dannoso si sostanzia nell’accertamento della probabilità (positiva o negativa) del conseguimento del risultato idoneo ad evitare il rischio specifico di danno, riconosciuta alla condotta omessa, da compiersi mediante un giudizio controfattuale, che pone al posto dell’omissione il comportamento dovuto. Tale giudizio deve essere effettuato sulla scorta del criterio del “più probabile che non”, conformandosi a uno standard di certezza probabilistica che, in materia civile, non può essere ancorato alla determinazione quantitativa-statistica delle frequenze di classi di eventi (c.d. probabilità quantitativa), la quale potrebbe anche mancare o essere inconferente, ma va verificato riconducendone il grado di fondatezza all'ambito degli elementi di conferma (e, nel contempo, di esclusione di altri possibili alternativi) disponibili nel caso concreto (c.d. probabilità logica o baconiana)” (Cfr T.A.R. Roma, Lazio, sez. I, 02/02/2024, n.2061; Consiglio di Stato sez. VI, 07/11/2023, n.9583).


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