Cassazione penale sez. VI, 10:04:2024, (ud. 10:04:2024, dep. 23:09:2024), n.35687

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Sentenza

Commento dell'Avv. Elena Berto


La vicenda de qua, invero, si riferisce ad una pluralità di fattispecie incriminatrici di reato, poste a tutela del bene giuridico, da un lato, della (i) imparzialità, e, dall’altro lato, del (ii) buon andamento della P.A., giusta art. 97 della Costituzione.

Ad essere sottoposto a tutela, evidentemente, è il dovere di fedeltà dei soggetti con “qualifiche pubblicistiche”; nonché il “corretto funzionamento” ed il “prestigio” della Pubblica Amministrazione.

Il merito della pronuncia in esame, nientemeno, risiede nell’aver delineato il “discrimen”: tra il reato di “corruzione propria” e quello di “corruzione per l’esercizio della funzione”; (ii) tra il reato di “concussione” e “induzione indebita”; (iii) nonché tra il “reato di corruzione” e le due fattispecie “finitime”, rispettivamente, di “concussione”, e “induzione indebita”.

Prima di procedere con l’analisi della vicenda processuale che, quivi, viene in rilievo, anche al fine di una maggiore comprensione delle tematiche dissertate, gioverà passare in rassegna, brevemente, gli elementi di disciplina “distintivi” tra i reati de quibus.

In primo luogo, quanto alla distinzione tra (i) il reato di corruzione per l’esercizio della funzione pubblica, giusta art. 318 c.p., ed (ii) il reato di corruzione propria, giusta art. 319 c.p., occorre precisare quanto, di seguito, disposto.

Il delitto di corruzione per l’esercizio della funzione pubblica, come noto, ha natura di reato di pericolo, e, per il suo inveramento, non si ritiene necessaria l’individuazione del compimento di “uno specifico atto d’ufficio”, non richiedendosi, necessariamente, che l’asservimento, dell’agente, all’interesse privato, si sia protratto nel tempo. Diversamente, nel delitto di corruzione propria, è necessario che l’illecito accordo tra pubblico funzionario e privato corruttore preveda il compimento, da parte del primo, di un atto, specificamente, individuato, o, comunque, di possibile individuazione, inteso come “contrario ai doveri d’ufficio”.

In secondo luogo, quanto alla distinzione tra (i) il reato di concussione, giusta art. 317 c.p., ed (ii) il reato di induzione indebita, giusta art. 319 quater c.p., occorre precisare quanto reso oggetto di rappresentazione.

Ben si saprà come, con Legge n. 190 del 6 novembre 2012, il reato di concussione è stato, profondamente, rivisitato; mentre, il reato di induzione indebita è stato introdotto, ex novo, nell’ordinamento giuridico.

La differenza tra le due fattispecie incriminatrici, più di preciso, risiede nel mezzo usato per la realizzazione dell’evento: la dazione o la promessa dell’indebito sono, nella concussione, effetto del “timore” realizzato mediante l’esercizio della minaccia, anche implicita, che si risolva in una significativa e seria “intimidazione”, tale da incidere, in misura notevole, sulla volontà del soggetto passivo; nell’induzione, invece, la dazione o la promessa sono effetto delle forme più varie di “attività persuasiva”, di “suggestione tacita” o di “atti ingannevoli”. In altri termini, a caratterizzare la concussione è, dunque, il “timore di un danno minacciato” dal pubblico ufficiale, dal quale discende una “costrizione psichica” del privato, “quasi totale”, ed incontrastabile; mentre, viceversa, nell’induzione, il pubblico ufficiale, abusando della propria qualità o funzione, fa leva, piuttosto, sulla sua “posizione di preminenza”, per “suggestionare”, “persuadere”, ovvero “convincere”, a dare o promettere qualcosa.

In altri termini, mentre, nella concussione, si ravvisa una coartazione psicologica totalmente invalidante del privato; al contrario, nell’induzione, si rinviene un’attrazione all’attività criminosa, del tutto dominabile e gestibile, giacché frutto di un’adesione volontaristica del privato, il quale si lascia pervadere – senza opporsi – dal fine delittuoso.

In terzo luogo, quanto alla distinzione tra le (i) fattispecie corruttive, giusta art. 318 c.p., ed il (ii) reato di induzione indebita (ex art. 319 quater c.p.) e quello di (iii) concussione (ex art. 317 c.p.), si prenda in considerazione quanto, a seguire, prospettato.

I reati d’induzione indebita nonché di concussione, invero, si distinguono dalle fattispecie corruttive, in quanto entrambi i primi due illeciti sono qualificati da una “condotta di prevaricazione abusiva” del funzionario pubblico, idonea, a seconda dei contenuti che assume, a costringere o ad indurre alla dazione o alla promessa indebita l’extraneus, il quale, per effetto di siffatta condotta abusiva, si viene a trovare in una “posizione di soggezione”; diversamente, l’accordo corruttivo (il c.d. “pactum sceleris”), invece, presuppone la “par condicio contractualis”, la quale evidenzia l’incontro, assolutamente libero e consapevole, delle volontà delle parti.

Veniamo, a questo punto, alla ricognizione dei fatti processuali inerenti alla vicenda giudiziaria de qua.

La Corte di Appello di Milano – con sentenza del 20 giugno 2023 – in riforma del provvedimento di primo grado, impugnato, dalla parte civile (Comune di Milano), dagli imputati, nonché dalla COEDIL S.r.l., ha, testualmente, e, segnatamente, “a) dichiarato non doversi procedere, nei confronti di “IMPUTATO 1” , in relazione al reato di cui al “capo V” dell’imputazione (“corruzione per l’esercizio della funzione”), nonché nei confronti di “IMPUTATO 2” , in relazione al reato “sub capo U” dell’imputazione , limitatamente alle ipotesi di cui alle “lettere A e B”, (“corruzione per atto contrario ai doveri di ufficio”) , per essersi i reati estinti per prescrizione; rideterminando, in anni quattro di reclusione, la pena nei confronti di quest’ultimo imputato, in relazione alla residua ipotesi di cui alla “lettera C” di tale capo “U” ; b) revocato la confisca, nei confronti di “IMPUTATO 1” ; c) rideterminato la pena nei confronti di “IMPUTATO 3” , in anni quattro di reclusione, previa applicazione delle già concesse attenuanti generiche, nella massima estensione, in relazione all’imputazione di cui “al capo W”; dichiarando, in essa, assorbito, il reato “sub capo X” (due contestazioni di “concussione”); d) confermato, nel resto, la sentenza impugnata, con le conseguenti statuizioni civili, anche in relaziona all’affermazione di responsabilità di COEDIL Srl, condannata alla sanzione di 100 quote, da (…) euro ciascuna, oltre alla confisca del profitto, in relazione all’illecito amministrativo, dipendente da reato, di cui al “capo Y1” (reati presupposti i “capi F1”, “U” e “V”, fatti di “corruzione attiva”, “propria” e per “l’esercizio della funzione”, commessi da “IMPUTATO 4”, direttore generale della società, giudicato separatamente)”.

Avverso detta sentenza, gli imputati (1,2,3,e 4), nonché la COEDIL Srl, a mezzo dei rispettivi difensori, proponevano ricorso.

La Corte di Cassazione Penale, così, disponeva: “annulla la sentenza impugnata nei confronti di “IMPUTATO 3”, e rinvia, per nuovo giudizio, ad altra Sezione, della Corte di Appello di Milano. Riqualifica il fatto di cui al “capo U”, ipotesi “C”, ai sensi dell’art. 318 cp. Dichiara non doversi procedere, nei confronti di “IMPUTATO 2”, per intervenuta prescrizione. Revoca le statuizioni civili riferite al “capo E”, nei confronti di IMPUTATO 1” e “IMPUTATO 2”, eliminando la somma di euro disposta a carico di ciascuno; conferma, nel resto, le statuizioni civili, nei confronti di entrambi; rigetta, nel resto, i loro ricorsi. Rigetta il ricorso di COEDIL Srl, che condanna al pagamento delle spese processuali. Condanna “IMPUTATO 1” e “IMPUTATO 2” alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa, sostenute nel presente giudizio, dalla parte civile (Comune di Milano), oltre accessori di legge”.

Di interessante rilievo – atteso che si evoca il discrimen tra il reato di “corruzione propria” e quello di “corruzione per l’esercizio della funzione” – risultano essere il “secondo”, “quarto” e “sesto” motivo di ricorso per cassazione (dichiarati, infondati, nel merito), con i quali si eccepisce l’infondatezza dell’affermazione di responsabilità, per le tre ipotesi di cui al “capo U” dell’imputazione (di cui, quelle sub “A” e “B”, dichiarate, estinte, per prescrizione).

La Corte territoriale era pervenuta alla ricostruzione delle “condotte incriminate”, tenendo conto delle dichiarazioni rese, nel secondo grado di giudizio, riferite a “tre dazioni patrimoiali”, funzionali ad ottenere l’aggiudicazione di “lavori pubblici”.

La Corte di Cassazione Penale, rispetto a queste condotte, afferma l’errata qualificazione giuridica dei fatti quali “corruzione propria”.

Invero, la sentenza impugnata “non ha indicato quale sarebbe l’atto contrario ai doveri di ufficio; atteso che il capo di imputazione indica solamente “trattasi di ‘assegnazione di appalti’ avvenuta con violazione dei principi di imparzialità e buon andamento della Pubblica Amministrazione e con l’inosservanza delle norme procedimentali relative ai criteri di scelta dei contraenti”.

Ritiene, a tal riguardo, il Collegio di legittimità di dovere ribadire il principio, già accolto in giurisprudenza, (Cfr Cass. Pen., Sez. 6, n. 18125 del 22/10/2019 - depositata 2020), secondo cui “in tema di corruzione la mera accettazione da parte del pubblico agente di un’indebita utilità a fronte del compimento di un atto discrezionale – e, dunque, la violazione del generale principio di imparzialità – non integra, necessariamente, il reato di “corruzione propria”, dovendosi verificare, in concreto, se l’esercizio dell’attività sia stato condizionato dalla ‘presa in carico’ dell’interesse del privato corruttore, comportando una violazione delle norme attinenti a modi, contenuti o tempi dei provvedimenti da assumere e delle decisioni da adottare, ovvero se l’interesse perseguito sia ugualmente sussumibile nell’interesse pubblico tipizzato dalla norma attributiva del potere, nel qual caso, la condotta integra il meno grave reato di corruzione per l’esercizio della funzione” (Cfr Cass Pena, Sez. 6, n. 18125 del 22/10/2019).

Sicché il discrimen tra il reato di “corruzione propria” e quello di “corruzione per l’esercizio della funazione” è individuato nella circostanza che: la fattispecie di “corruzione propria” richiede, per espressa previsione del legislatore, la presenza di uno specifico “atto contrario ai doveri di ufficio”, e ciò vale a distinguerla dalla meno grave figura della “corruzione per l’esercizio della funzione”, nella quale detto elemento non è contemplato.

La Corte di Cassazione Penale, invero, non ritiene meritevole l’adesione esegetica all’opposta interpretazione ermeneutica.

L’opposta tesi giurisprudenziale, accolta – di contro – dalla sentenza impugnata, avrebbe, nientemeno, l’effetto di azzerare lo spazio applicativo della fattispecie di cui all’art. 318 cp, (come modificata dal legislatore del 2012), atteso che “considerare atto contrario ai doveri di ufficio la mera “strumentalizzazione” o “distorsione” dell’esercizio del potere discrezionale stesso, derivante dalla circostanza che il pubblico ufficiale è stato remunerato dal corruttore e ne ‘ha preso in carica l’interesse’, senza operare una adeguata ponderazione degli interessi coinvolti nella decisione di sua spettanza, significa che sussiste sempre la corruzione propria, anche se l’atto in cui si sostanzia tale esercizio non è in sé contra legem”.

In tal modo, si verificherebbe una – “non consentita” – espansione dell’ambito applicativo del reato ex art. 319 cp, che non risulta in sintonia con il principio di tassatività e determinatezza delle fattispecie penale.

Con la sentenza n. 98 del 28 aprile-14 maggio 2021, la Corte Costituzionale ha, infatti, ribadito che sono le norme incriminatrici – e non già la loro successiva interpretazione ad opera della giurisprudenza – a dover “fornire al consociato un chiaro avvertimento circa le conseguenze sanzionatorie delle proprie condotte; sicché non è tollerabile che la sanzione possa colpirlo per fatti che il linguaggio comune non consente di ricondurre al significato letterale delle espressioni utilizzate dal legislatore”.

Il Giudice delle leggi ha aggiunto che “il divieto di applicazione analogica delle norme incriminatrici da parte del giudice costituisce il naturale completamento di altri corollari del principio di legalità in materia penale sancito dall’art. 25 Cost., comma 2, e in particolare della riserva di legge e del principio di determinatezza della legge penale”.

Sicché, dal momento che dalle motivazioni delle sentenze di merito – a parere dei giudici di legittimità – non emergerebbe l’individuazione di uno specifico “atto contrario ai doveri di ufficio”, posto in essere quale “pretium sceleris”, si impone, all’evidenza, la riqualificazione del fatto contestato ai sensi dell’art. 318 c.p.

Ed altresì, di interessante rilievo risulta essere – di poi – il passaggio motivazionale della sentenza di appello, ove ha ritenuto configurabile la “concussione”, con riferimento alla condotta della consegna di un costoso orologio “rolex” (“capo X”, ritenuto “assorbito”) e di una “ingente quantità di denaro” (“capo W”), atteso che siffatta condotta sarebbe stata reputata funzionale ad evitare “strumentali rallentamenti dei lavori” nella gestione dell’appalto.

Viene, ancora, precisato che la “natura costrittiva” delle “pretese del ricorrente” troverebbe riscontro in un ulteriore ordine di considerazioni, di seguito esposte.

Ed invero, diversamente da quanto accaduto per i fatti di reato qualificati in termini di ‘corruzione’, con riguardo alle “condotte di concussione”, dalla registrazione delle conversazioni, sarebbe emerso che “si temevano ostacoli all’esecuzione dell’appalto, artatamente sollevati dall’imputato, nonostante il pagamento delle somme richieste in sede di aggiudicazione ”.

La condotta dell’imputato, di poi, sarebbe diventata – effettivamente – ostruzionistica, proprio in prossimità del pagamento del maggiore importo, pari a più del doppio della soglia minima prevista dal contratto.

Pertanto – argomenta la sentenza impugnata – “la vittima temeva le condotte ostruzionistiche dell’imputato, e questo “metus” esclude la configurabilità della corruzione ”.

La motivazione della Corte territoriale, tuttavia, a parere dei giudici di legittimità, non risulta idonea a dimostrare, in modo adeguato, la sussistenza del delitto di cui all’art. 317 c.p.

In giurisprudenza, (Cfr Cass. Pen., sentenza n. 25694 del 01.01.2011) si è avuto modo di precisare che: “non integra la fattispecie di concussione, la condotta di semplice richiesta di denaro o altre utilità da parte del pubblico ufficiale, in presenza di situazioni di mera pressione ambientale, senza, però, che questi abbia posto in essere atti di costrizione o d’induzione, non potendosi fare applicazione analogica della norma incriminatrice, imperniata inequivocabilmente sullo stato di soggezione della vittima provocato dalla condotta del pubblico ufficiale”. (Nella specie, la S.C. ha annullato, invero, la sentenza della Corte di Appello, che aveva qualificato come concussione, piuttosto che corruzione, la mera richiesta di denaro o di altra utilità, da parte del soggetto passivo, in forza di una generalizzata e notoria prassi, in tal senso, invalsa in un determinato settore della P.A.).

In ipotesi e fattispecie similari, si è, ripetutamente, affermato come non sia ravvisabile la fattispecie della concussione c.d. “ambientale”, dovendo, piuttosto, configurarsi, il reato di corruzione, allorquando il privato si inserisca in un sistema nel quale il “mercanteggiamento dei pubblici poteri”, nonché la pratica della “tangente” sia costante; giacché viene a mancare, completamente, in lui, lo stato di soggezione, e coartazione psichica; atteso che il privato tende ad assicurarsi vantaggi illeciti, approfittando di meccanismi criminosi e divenendo, anch’egli, protagonista del sistema.

In ordine alla distinzione tra concussione e induzione indebita si è poi fatto presente come “in tema di concussione, di cui all’art. 317 c.p., così come modificato dall’art. 1, comma 75, della Legge n. 190 del 2012, la costrizione consiste nel comportamento del pubblico ufficiale che, abusando delle sue funzioni o dei suoi poteri, agisce con modalità o con forme di pressione tali da non lasciare margine alla libertà di autodeterminazione del destinatario della pretesa illecita che, di conseguenza, si determina alla dazione o alla promessa esclusivamente per evitare il danno minacciatogli; ne consegue che non è sufficiente ad integrare il delitto in esame qualsiasi forma di condizionamento, che non si estrinsechi in una forma di intimidazione obiettivamente idonea a determinare una coercizione psicologica cogente in capo al soggetto passivo ”. (Cfr Cass. Pen. Sez. 2, n. 23019 del 05/05/2015).

In merito, poi, alla distinzione tra il “reato di corruzione” e le due fattispecie “finitime”, di “concussione” e “induzione indebita”, sempre in giurisprudenza (Sez. 6, n. 50065 del 22/09/2015), è stato disposto il principio in ossequio al quale “ il reato di concussione e quello di induzione indebita a dare o promettere util/ità si differenziano dalle fattispecie corruttive, in quanto i primi due illeciti richiedono, entrambi, una condotta di prevaricazione abusiva del funzionario pubblico, idonea, a seconda dei contenuti che assume, a costringere o a indurre l’extraneus, comunque, in posizione di soggezione, alla dazione o alla promessa indebita, mentre l’accordo corruttivo presuppone la ‘par condicio contractualis’, ed evidenzia l’incontro libero e consapevole della volontà delle parti. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto, immune da vizi, la sentenza che aveva ritenuto sussistente il reato previsto dall’art. 319 quater cp, con riguardo alla condotta di due dipendenti della Agenzia delle Entrate che, abusando della loro qualità di verificatori, avevano, nel corso di una verifica fiscale, presso un esercizio commerciale, dapprima, prospettato al titolare l’applicazione di significative sanzioni economiche e, successivamente, sempre nell’ambito di una situazione di squilibrio tra le parti, lo avevano indotto a farsi promettere e consegnare una somma di denaro, per omettere la trasmissione delle segnalazioni relative alla irregolarità riscontrare, alle competenti autorità) ”.

Alla luce di tali principi, secondo i giudici di legittimità, dalla sentenza impugnata, non risulta, con chiarezza, in primo luogo, se il rapporto intercorso tra le parti (il pubblico ufficiale e il privato titolare dell’impresa interessata all’appalto) possa essere qualificato in termini di sostanziale ed effettiva “disparità di posizione” o, invece, se i due si siano collocati su un “piano di parità” (così come avvenuto, nei rapporti, dello stesso privato, con gli altri pubblici ufficiali coinvolti), con la conseguenza che, in questo secondo caso, i fatti andrebbero configurati quale “corruzione”, ex art. 318 c.p. Laddove, invece, si dovesse accertare la situazione di “squilibrio tra i soggetti”, dovrebbe, di poi, verificarsi, se, dal compendio probatorio, emerga una “condotta costrittiva”, da parte del pubblico ufficiale, (sussistendo, allora, la “concussione”), ovvero una mera “persuasione e suggestione”, idonea a configurare “l’induzione”, finalizzata ad ottenere, da parte del pubblico ufficiale, il danaro, nonché, da parte del privato, un indebito vantaggio, per la società che rappresentata.

Tale mancanza di chiarezza, in ordine all’analisi delle condotte – all’interno della sentenza impugnata – ha implicato l’impossibilità di portare a “completamento” il processo di sussunzione, delle stesse, sotto l’alevo delle corrette fattispeciei incriminatrici di reato; di talché, si è dato seguito, pertanto, all’annullamento della sentenza impugnata, con rinvio, ad altra Sezione della Corte milanese, per un nuovo giudizio, su tali profili.


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