Cassazione civile sez. trib. - 03:09:2024, n. 23570

Commento dell'Avv. Elena Berto
La vicenda de qua si riferisce alla fattispecie di reato di cui all’art. 8 del D. Lgs. n. 74 del 2000, rubricato, invero, “emissione di fatture ovvero altri documenti per operazioni inesistenti”.
Prima di procedere con la ricognizione dei fatti e delle condotte inerenti alla sentenza quivi annotata, gioverà premettere “brevi cenni” sulla struttura della fattispecie incriminatrice in esame.
Come noto, soggetto attivo del reato può essere chiunque.
L’elemento oggettivo del reato consiste nella condotta di emissione di false fatture, al fine di consentire, “a terzi”, un indebito e fraudolento abbassamento dell’imponibile fiscale, relativo alle imposte sui redditi, o sul valore aggiunto. Come precisato, invero, anche dalla più recente giurisprudenza, tale reato “presuppone l’alterità tra la persona che emette e la persona che utilizza le fatture” (Cfr Cass., Sez. fer., n. 47603/2017). Giovi sottolineare, a tal riguardo, come l’art. 9 del D.Lgs. n. 74 del 2000 introduca, inoltre, una specifica eccezione ai “principi sul concorso di persone”; stabilendo che l’emittente di fatture per operazioni inesistenti non concorre con chi utilizza tali fatture in dichiarazione e commette, dunque, il reato di dichiarazione fraudolenta fissato all’art. 2 del medesimo D.Lgs.
In base all’art. 1, lett. a), per “fatture e i documenti per operazioni inesistenti”, si devono intendere tutti quei documenti, aventi valore probatorio per l’Amministrazione tributaria, emessi a fronte di operazioni non realmente effettuate, in tutto o in parte, o che indicano i corrispettivi o l’imposta sul valore aggiunto, in misura superiore a quella reale, ovvero che riferiscono l’operazione a soggetti diversi da quelli effettivi.
Si ritiene, comunemente, che il reato si consumi con l’emissione o il rilascio del primo documento fiscale falsificato; nonostante, come precisato al comma 2, il rilascio o l’emissione di più fatture o documenti, nell’arco del periodo d’imposta, realizzi un unico delitto.
A differenza dei reati c.d. “dichiarativi” – tra cui quello punito all’art. 2, che sanziona l’utilizzo in dichiarazione delle fatture false – il reato de quo si connota come “reato di pericolo”, in quanto non è necessario, ai fini della punibilità, che i documenti fiscali siano – effettivamente – utilizzati, bensì, è sufficiente la loro mera “emissione” o il “rilascio”, vale a dire che i documenti escano dalla sfera individuale del reo, per entrare nella disponibilità di terzi, proiettando, dunque, effetti giuridici all’esterno.
Quanto all’elemento soggettivo, non v’è chi non veda come il delitto de quo sia punito a titolo di dolo specifico.
Sicché sarà necessario, quindi, che in capo all’agente risieda la consapevolezza e volontà di porre in essere la specifica condotta sanzionata, cioè di emettere o rilasciare le fatture per operazioni inesistenti al fine specifico di consentire a terzi di dichiarare il falso al fisco.
In giurisprudenza (Cfr Corte Giustizia Trib. II grado Roma, Lazio, sez. XV, 23/04/2024, n.2700), quanto all’elemento soggettivo, è stato evidenziato come: “l’autonomia che connota i rapporti fra il giudizio tributario e il giudizio penale, comporta che, in tema di operazioni inesistenti, gli elementi valutati dal giudice penale per ravvisare il dolo del reato contestato di partecipazione ad una frode fiscale, non rilevano ai fini del giudizio di colpevolezza in ambito tributario, ove l’elemento soggettivo si fonda sulla colpa in ordine alla adozione od omissione di una condotta diligente e quindi delle opportune e doverose cautele per evitare l’oggettiva partecipazione alla frode.”.
Ed altresì, è interessante la precisazione giurisprudenziale con cui è stato disposto che: “in ossequio al principio del doppio binario, in tema di operazioni inesistenti, gli eventuali elementi rilevatori valutati dal giudice penale in ordine alla consapevolezza dell’imputato di partecipare ad una frode fiscale, assumono valenza diversa in sede di processo tributario, poiché possono a esempio dimostrare la non occasionalità del rapporto fra il soggetto con società rivelatesi semplici ‘cartiere’ ed evasori totali.” (Cfr Corte Giustizia Trib. II grado Roma, Lazio, sez. XV, 23/04/2024, n.2697).
Quanto al concetto di “operazioni inesistenti”, v’è da specificare che l’inesistenza dell’operazione, invero, può essere sia di natura oggettiva che soggettiva. (i) L’inesistenza è oggettiva nel caso in cui sia stata documentata in fattura un’operazione mai avvenuta o avvenuta solo in parte. (ii) L’inesistenza è soggettiva, invece, nel caso in cui l’operazione sia avvenuta tra soggetti differenti da quelli indicati in fattura.
In materia tributaria, il concetto di “operazioni inesistenti” è da intendersi in senso ampio, “ovverosia deve intendersi non solo limitato alle ipotesi di totale inesistenza (inesistenza assoluta), soggettiva od oggettiva, delle operazioni indicate nel documento contabile rappresentato dalla fattura, ma comprende anche le ipotesi in cui dette operazioni non siano state regolarmente effettuate in tutto o in parte” (Cfr Corte Giustizia Trib. II grado Brescia, Lombardia, sez. XXV, 13/06/2024, n.1722).
Come anche si avrà modo di vedere – infra – in tema di “riparto dell’onere probatorio” si è statuito quanto segue: “in caso di contestazione di fatture inesistenti, al fine di dimostrare la sussistenza delle operazioni, commerciali indicate nel documento contabile, le parti, ovverosia la società e i soci, devono dimostrare l’effettiva esistenza delle prestazioni, mediante dati oggettivi, sicché in caso di omesso ottemperamento a tale onere probatorio, la pretesa deve essere confermata” (Cfr Corte Giustizia Trib. II grado Roma, Lazio, sez. VII, 07/06/2024, n.3821).
Sempre in tema di riparto dell’onere della prova, di poi, si è chiarito come (Cfr Corte Giustizia Trib. II grado Roma, Lazio, sez. XVI, 07/05/2024, n.3017): “in tema di fatture per operazioni oggettivamente inesistenti, qualora l’Amministrazione contesti indebite detrazioni I.V.A. e deduzione di costi fatturati, anche mediante elementi presuntivi, purché oggettivi e atti ad acclarare l’emissione di fatture in assoluta assenza di corrispondente prestazione, è onere del contribuente, che rivendichi la legittimità della deduzione degli esborsi fatturati e quella della detrazione dell’I.V.A., correlativamente indicata, fornire la prova dell’effettiva esistenza delle operazioni.”.
Giunti a questo punto della dissertazione, converrà procedere con l’analisi della vicenda giudiziaria che soggiace alla sentenza commentata.
In seguito ad una indagine, effettuata tra il 2012 e il 2013, su delega della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Como, veniva denunciato il titolare di una ditta individuale per il reato di cui all’art. 8 del D.Lgs. n. 74 del 2000, stante l’emissione di un certo numero di fatture, relative ad operazioni inesistenti, nei confronti di tre operatori commerciali.
Dalle indagini scaturiva processo verbale di constatazione.
A seguire, si instaurava, a carico del contribuente titolare della ditta individuale incriminata, un procedimento penale presso il Tribunale di Como.
Sulla base del processo verbale di constatazione, l’Agenzia delle Entrate procedeva ad una ripresa Irpef e Iva. Nell’avviso di accertamento, deducevasi la sussistenza di una simulazione delle forniture di servizi e mano d’opera; funzionali ad abbattere la base imponibile dei redditi dichiarati, anche al fine di detrarre, indebitamente, l’Iva dovuta all’erario.
Impugnati i quattro avvisi di accertamento notificati al contribuente, in relazione alle annualità 2006, 2007, 2008 e 2009, la Corte Tributaria Provinciale di Milano accoglieva il ricorso.
Su appello dell’Agenzia delle Entrate, la Corte Tributaria Regionale della Lombardia riformava, integralmente, la sentenza di primo grado.
Avverso la sentenza d’appello proponeva ricorso per cassazione il contribuente, affidato a due motivi.
Resisteva, quindi, con controricorso, l’Agenzia delle Entrate.
Il sostituto Procuratore Generale, di poi, concludeva per l’inammissibilità e l’infondatezza del ricorso.
Il contribuente depositava memoria difensiva, in vista dell’adunanza camerale, allegando la sentenza di assoluzione del Tribunale penale di Como, perché il fatto non sussiste, giusta art. 530, comma 2 c.p.p., munita di attestazione di passaggio in giudicato.
Con il primo motivo di ricorso, il contribuente impugnava la sentenza d’appello perché avrebbe violato una serie di princìpi e di norme applicabili al processo tributario, mutuati dal processo civile, attraverso l’art. 1, comma 2 del D.Lgs. n. 546 del 1992.
In particolare, l’Agenzia delle Entrate avrebbe dovuto provare l’inesistenza delle operazioni sottostanti alle fatture emesse dalla ditta.
Senonché, secondo il contribuente, l’Agenzia delle Entrate si sarebbe “appiattita”, aderendo acriticamente, alle conclusioni del processo verbale di constatazione della Guardia di Finanza; fondando gli avvisi di accertamento su delle presunzioni semplici rispetto alle quali non avrebbe fornito la prova contraria.
Secondo il contribuente, la Corte Tributaria Regionale, nel riformare, totalmente, la sentenza di primo grado, avrebbe attribuito valore di prova presuntiva a fatti privi di valenza inferenziale.
Segnatamente: (i) il pagamento quasi sempre in contanti delle fatture emesse; (ii) l’importo delle fatture emesse negli anni dal 2006 al 2010 esorbitante rispetto alle capacità operative; (iii) l’inesistenza di contratti scritti; la estrema genericità delle indicazioni contenute in fattura; (iv) l’essere stato personalmente il contribuente, per un lasso di tempo nel periodo in esame, nell’impossibilità di svolgere la sua attività economica; (v) l’avere il contribuente occultato le scritture contabili al fine di impedire la ricostruzione del suo volume d’affari; (vi) l’avere il contribuente omesso, tranne che per il 2009, di presentare le dichiarazioni fiscali e gli elenchi clienti-fornitori; (vii) l’emersione, durante le attività di verifica, di fatture emesse anche nei confronti di altri operatori economici.
Con il secondo motivo di ricorso, il contribuente censurava la sentenza impugnata per avere, senza adeguata motivazione, raggiunto una conclusione opposta rispetto a quella del giudice di primo grado, senza puntualmente valutare le prove contrarie anche fotografiche offerte dal contribuente.
La sentenza impugnata, dunque, veniva criticata, non solo per avere fondato le presunzioni semplici su elementi di fatto privi dei requisiti della gravità, della precisione, e della concordanza; ma, altresì, per avere trascurato l’esame del corredo probatorio offerto dal contribuente.
Con la memoria difensiva, in cui il contribuente ribadiva i due motivi di ricorso, è stata depositata la sentenza penale irrevocabile di assoluzione, perché il fatto non sussiste.
Il primo motivo di ricorso è stato reputato fondato.
In seguito all’adunanza camerale originariamente fissata per la decisione della causa, come noto, è stato emanato il D.Lgs. n. 87 del 2024, il cui art. 1, comma 1, lett. m), ha introdotto, nel corpo del D.Lgs. n. 74 del 2000, il nuovo art. 21-bis, rubricato “Efficacia delle sentenze penali nel processo tributario e nel processo di Cassazione”, che così dispone, per quel che in questa sede interessa: “la sentenza irrevocabile di assoluzione perché il fatto non sussiste o l’imputato non lo ha commesso, pronunciata in seguito a dibattimento nei confronti del medesimo soggetto, e sugli stessi fatti materiali oggetto di valutazione nel processo tributario, ha, in questo, efficacia di giudicato, in ogni stato e grado, quanto ai fatti medesimi. La sentenza penale irrevocabile di cui al comma 1 può essere depositata anche nel giudizio di Cassazione, fino a quindici giorni prima dell’udienza, o dell’adunanza in camera di consiglio”.
Tale ius superveniens si applica anche ai casi (come quello per cui è causa) in cui la sentenza penale dibattimentale di assoluzione sia divenuta irrevocabile prima dell’entrata in vigore del citato D.Lgs. n. 87 del 2024, purché, alla data di entrata in vigore del D.Lgs. medesimo, fosse ancora pendente il giudizio di cassazione contro la sentenza tributaria d’appello che ha condannato il contribuente in relazione ai medesimi fatti, rilevanti penalmente, dai quali egli sarebbe stato irrevocabilmente assolto, in esito a giudizio dibattimentale, con una delle formule “di merito” previste dal codice di rito penale (perché il fatto non sussiste o perché l’imputato non l’ha commesso).
Orbene, nel caso di specie, il contribuente, titolare di una ditta individuale, è stato assolto, in sede penale, in esito a giudizio dibattimentale, perché il fatto non sussiste, con sentenza del Tribunale di Como, munita di attestato di passaggio in giudicato, ritualmente e tempestivamente allegata agli atti del giudizio di cassazione. Non vi è dubbio, inoltre, che i fatti posti alla base degli avvisi di accertamento impugnati siano gli stessi fatti oggetto dell’imputazione penale dalla quale il contribuente è stato definitivamente assolto. Ne consegue che, spiegando la sentenza penale di assoluzione efficacia di giudicato nell’ambito del giudizio di cassazione, con riferimento all’esistenza dei fatti posti a base delle riprese fiscali, deve ritenersi, anche con riferimento al giudizio tributario, che tali fatti non sussistono, con la conseguenza che la sentenza impugnata è stata cassata.
Non essendovi bisogno di ulteriori accertamenti di fatto, in applicazione del citato ius superveniens, la causa è stata decisa, nel merito, con l’accoglimento del ricorso proposto in primo grado.
Il secondo motivo di ricorso è stato reputato assorbito.
La portata dirimente, ai fini della decisione della causa, dello ius superveniens, ha implicato la compensazione integrale delle spese di tutti i gradi del giudizio.
Sicché, la Corte di Cassazione ha accolto il primo motivo di ricorso, assorbito il secondo. La sentenza di secondo grado impugnata è stata cassata. Nel merito, si è disposto nel senso dell’accoglimento del ricorso proposto in primo grado dal contribuente; con conseguente annullamento degli avvisi di accertamento impugnati.
