Cassazione Civile sez. II - 18:09:2024, n. 25088

Commento dell'Avv. Elena Berto
La vicenda fattuale de qua muove dal mancato riconoscimento, in favore del fondo attoreo, dell’acquisto – a titolo originario (per usucapione) – di una c.d. “servitù di passaggio”.
L’attore, dopo aver perso, sia in primo grado che innanzi la Corte di Appello di Brescia, proponeva, altresì, ricorso per cassazione.
Con il primo motivo, il ricorrente denunciava la violazione e falsa applicazione dell’art. 132, comma 1, n. 4 c.p.c., assumendo che la Corte di merito di secondo grado avesse reso una motivazione meramente apparente, in ordine alle risultanze probatorie, così giungendo, irragionevolmente, a disattendere la domanda d’accertamento del diritto di passaggio per usucapione.
Con il secondo motivo, il ricorrente denunciava la falsa od erronea applicazione dell’art. 1051, comma 2 c.c., dell’art. 22 e seguenti D.Lgs n. 285 del 1992, degli artt. 44 e 45 del D.P.R. n. 495 del 1992, nonché del D.Lgs. n. 42/2004.
I giudici di legittimità accoglievano il secondo motivo del ricorso; dichiaravano inammissibile il primo; e, per l’effetto, cassavano la sentenza impugnata in relazione all’accolto motivo; rinviando alla Corte d’Appello di Brescia, in altra composizione, anche per il regolamento delle spese del giudizio di legittimità.
Quanto al primo motivo di ricorso, chiarisce la Corte di Cassazione come: “la giustificazione motivazionale è di esclusivo dominio del giudice del merito, con la sola eccezione del caso in cui essa debba giudicarsi ‘meramente apparente’; apparenza che ricorre, allorquando essa, benché graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture. A tale ipotesi deve aggiungersi il caso in cui la motivazione non risulti dotata dell’ineludibile attitudine a rendere palese (sia pure in via mediata o indiretta) la sua riferibilità al caso concreto preso in esame, di talché appaia di mero stile, o, se si vuole, standard; cioè un modello argomentativo apriori, che prescinda dall’effettivo e specifico sindacato sul fatto.” (Cfr Cass. Civ., Sez. 6, n. 13977, 23/5/2019; nonché Cass. Civ., S.U. n. 22232/2016).
Sempre i giudici di legittimità, di poi, ci tengono a precisare che la riformulazione dell’art. 360, comma primo, n.5, c.p.c., disposta dall’art. 54 del D.L. n. 83 del 2012, conv. in Legge n. 134 del 2012, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 delle preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione, con la conseguenza che risulta denunciabile, in cassazione, solo “l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali; anomalia che si esaurisce nella ‘mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico’, nella ‘motivazione apparente’, nel ‘contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili’ e nella ‘motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile’, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di ‘sufficienza’ della motivazione” (Cfr Cass. Civ., S.U., n. 8053, 7/4/2014; Cass. Civ., S.U. n. 8054, 7/4/2014; Cass. Civ. Sez. 6-2, n. 21257, 8/10/2014).
Sicché – expressis verbis – statuisce la Corte di Cassazione, altresì, che: “nel caso in esame, la Corte di Appello di Brescia avrebbe reso una motivazione, certamente, al di sopra del ‘minimo costituzionale’, rendendo ripercorribili le ragioni che l’hanno indotta a reputare non essere stata raggiunta la prova del vantato acquisto per usucapione. Per contro, il ricorrente invoca un improprio riesame di merito ovviamente precluso in questa sede”.
Quanto al secondo motivo di ricorso, si veda quanto di seguito disposto.
La Corte non omette di chiarire come sia onere del proprietario del fondo, che chiede la costituzione della servitù, in favore del medesimo, provare l’interclusione del suo fondo, oppure l’impossibilità di accedervi con mezzi meccanici; laddove, invece, incombe sul proprietario del fondo servente, dimostrare l’esistenza di un diritto di passaggio, a favore del fondo intercluso, nonché a carico di uno di quelli che lo circondano, che consenta lo sbocco sulla pubblica via.
Secondo la Cassazione l’onere della prova, nel caso di specie, ben sarebbe stato ottemperato.
Ed invero, l’attore, nei gradi di merito, avrebbe dato la prova in ordine al fatto che il suo fondo risultava confinare, a sud, con la strada provinciale (“ex statale 510”); a nord, col fondo dei convenuti; nonché, a nord-est e a sud-est, con il torrente limitrofo. Sarebbe, inoltre, stata fornita la prova in ordine all’utilizzo, da tempo immemore, dell’accesso alla strada comunale attraverso il fondo dei convenuti.
Peraltro, occorre precisare come, pur esistendo un varco idoneo a consentire l’accesso alla strada provinciale, siffatto passaggio risultava privo di autorizzazione amministrativa.
E, nientemeno, il C.T.U. aveva accertato che la Provincia di Brescia aveva escluso potersi autorizzare l’accesso alla “SPBS 510”, mancando le condizioni di sicurezza previste dalla legge.
In sostanza, le criticità riscontrabili, risultano essere, da un lato, il fatto che la Corte locale non prende in esame l’evenienza che possa disporsi servitù coattiva in presenza “d’impedimento solo giuridico dell’accesso alla pubblica via”; e, dall’altro lato, tuttavia, la medesima Corte locale reputa non esservi “prova in concreto” di un tale impedimento.
La Corte di Cassazione risolve la questione controversa, affrontando, prioritariamente, l’analisi del significato normativo della “mancanza d’uscita sulla pubblica via”.
Segnatamente, testualmente, si legge che: “ove si limitasse il concetto di ‘interclusione’, alla presenza d’un ostacolo fisico, sia esso costituito dalla presenza di fondi altrui o dalla orografia dei luoghi, la ratio della norma risulterebbe radicalmente sconfessata. Invero, negare che l’impossibilità d’accesso derivante dalla legge o da determinazioni della pubblica amministrazione, come nel caso in cui la strada, per la sua qualità o per il suo modo d’essere, non consenta, senza pericolo, l’autorizzazione di varchi privati, non integri l’ipotesi di cui all’art. 1051, comma 1, c.c., condannerebbe il fondo alla perenne interclusione”.
Proprio in tale ottica, già si era affermata la sussistenza del diritto del proprietario di un fondo destinato ad uso agricolo, di ottenere la servitù di passaggio coattivo, attraverso il fondo del vicino “anche allorché esista un transito di accesso alla via pubblica, se il cattivo stato di manutenzione di esso, non occasionale e transitorio, e il potere discrezionale della P.A. nel renderlo praticabile, ne escludano l’utilizzabilità, sì da configurare la sostanziale interclusione del fondo” (Cfr Cass. Civ., Sez. 2, n. 311, 14/01/1999).
Ovviamente, come per le circostanze che comportino l’interclusione fisica, anche per quella giuridica, la prova non può che essere fornita da chi agisce per la costituzione della servitù coattiva di passaggio; e così è stato, invero, nel caso di specie.
Sicché erra, platealmente, la sentenza della Corte di Appello di Brescia, nel ritiene non esperito l’onere della prova in ordine al fatto che l’accesso sulla strada provinciale fosse stato, espressamente, vietato.
Sicché la Corte di Appello di Brescia avrebbe violato il primo comma dell’art. 1051 c.c., avendo la sentenza omesso di misurarsi con le valutazioni del consulente del giudice, il quale ha esposto che la Provincia di Brescia aveva, espressamente, escluso la possibilità di una tale autorizzazione.
Giovi tenere in debita considerazione, di poi, che l’eventuale utilizzo (in esclusiva o in alternativa, fino al momento dell’interposta occlusione da parte dei controricorrenti) d’una apertura abusiva, poiché priva di autorizzazione, sulla strada provinciale, non può reputarsi giuridicamente apprezzabile.
Si tratterebbe, invero, d’una situazione fattuale precaria e contra legem che non libererebbe il fondo dall’interclusione.
La sentenza di secondo grado impugnata è stata cassata con rinvio, con il prescritto obbligo, per il giudice di merito, di attenersi ai seguenti principi: “in materia di costituzione di servitù coattiva di passaggio, ai sensi del primo comma dell’art. 1051 cc, costituisce impedimento ad usufruire d’uscita sulla via pubblica la circostanza che un tale accesso risulti precluso dalla legge o dalla pubblica amministrazione. Spetta a colui che richiede la costituzione della servitù dimostrare la giuridica impossibilità di accesso alla via pubblica; tuttavia, ove il consulente del giudice abbia escluso, sulla base degli accertamenti e delle informazioni ricevute dalla pubblica amministrazione, che dell’accesso l’interessato possa legittimamente fruire, non costituisce argomento che possa ribaltare una tale valutazione tecnica la circostanza che non consti essere stata presentata istanza per l’autorizzazione al passo carrabile”.
Peraltro, al contrario di quanto erroneamente affermato dalla sentenza impugnata, l’esponente non avrebbe giammai chiesto l’allargamento di una preesistente servitù, giusta art. 1051, comma 3 c.c., ma, ben diversamente, sia pure in via di subordine (ove fosse stata disattesa la domanda d’usucapione), costituirsi diritto coattivo di servitù di passaggio, giusta art. 1051, comma 1 c.c., il quale prevede che: “il proprietario, il cui fondo è circondato da fondi altrui, e che non ha uscita sulla via pubblica né può procurarsela senza eccessivo dispendio o disagio, ha diritto di ottenere il passaggio sul fondo vicino per la coltivazione e il conveniente uso del proprio fondo”.
L’art. 1051 c.c., come noto, disciplina il “passaggio coatto per il fondo intercluso”, e prevede l’ipotesi in cui il fondo sia circondato da “fondi altrui” e non abbia uscita sulla “pubblica via” (c.d. ‘interclusione assoluta’), nonché l’ipotesi in cui il passaggio non possa essere procurato senza “eccessivo dispendio” o “disagio” (c.d. ‘interclusione relativa’). In particolare, l’interclusione relativa si rinviene in tutti i casi in cui l’accesso alla via pubblica, pur se strutturalmente possibile, determini un dispendio eccessivo, mentre si ha la fattispecie del fondo non intercluso allorché vi sia un ‘iter’ funzionalmente “destinato a passaggio”, ma le cui caratteristiche concrete non siano sufficienti per l’esercizio.
E non v’è chi non veda come, nel caso in esame, sembrerebbe ricorrere la prima ipotesi esposta: vale a dire la c.d. “interclusione assoluta”.
Giovi precisare come, in tema di servitù, devesi garantire il rispetto del principio del c.d. “minimo mezzo”.
Di talché la servitù potrà essere costituita in modo che ne risulti garantita la libera esplicazione per l’utilità e la comodità del fondo dominante, ma in modo che il fondo servente sia gravato il meno possibile.
L’istituto di cui all’art. 1051 c.c., invero, si fonda su evidenti ragioni: la mancanza d’accesso alla via pubblica renderebbe vano il diritto di proprietà, poiché ne comporterebbe una compressione e limitazione inaccettabili; procurando, inoltre, un danno all’economia agricola in generale.
